La messa in scena di una pratica teorica

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Il 28 ottobre del 1964 Hannah Arendt fa la sua comparsa sugli schermi televisivi tedeschi. Partecipa al ciclo di trasmissioni dal titolo «La persona», e viene intervistata da Gà¼nter Gaus. Il testo dell’intervista, tradotto in italiano con La lingua materna, è entrato a far parte della vasta bibliografia dell’autrice, una delle maggiori teoriche politiche del Novecento.
Come testo scritto, il saggio ricorre spesso negli studi specialistici sulla Arendt. In quanto materiale audiovisivo, cioè prodotto all’interno di specifiche dinamiche comunicative, è praticamente ignorato. Leggendola, analizzandola e citandola nella forma del saggio, l’intervista televisiva viene ridotta ad una serie di pagine scritte all’interno delle quali il lettore ricava informazioni importanti sulla vita e l’opera dell’autrice e lo studioso ottiene dei preziosi concetti con cui approfondire la comprensione del pensiero arendtiano e del mondo che lo circonda. In questo modo, però, la pagina scritta elimina tutti quegli elementi interpretativi strettamente legati a ciò che è accaduto davanti alle telecamere nel corso dell’intervista. In breve, la scrittura non riesce a cogliere quello che avviene alla pensatrice quando è «in immagine» e che è altrettanto importante per capire il suo dispositivo di pensiero.
Pone parzialmente fine all’ignoranza della natura televisiva del saggio La lingua materna, il recente libro di Marie Luise Knott, Hannah Arendt. Un ritratto controcorrente (Raffaello Cortina Editore, a cura di Laura Boella, pp. 120, euro 15). Nel primo capitolo del testo – un’originale monografia articolata attraverso quattro gesti arendtiani quali il ridere, il tradurre, il perdonare e il drammatizzare, e una serie di disegni che li illustrano – l’autrice, analizzando proprio il ridere, fa una cosa molto importante: cita sì il testo dell’intervista televisiva, ma vi inserisce dei commenti interamente tratti dall’analisi del comportamento tenuto dalla Arendt durante la trasmissione.
Una risata sullo schermo
La Knott dovendo commentare un’intervista in tv, non ha fatto altro che andarsela a guardare (l’intervista è presente su YouTube). Le informazioni che ci fornisce rispetto alla sequenza analizzata – un punto molto delicato dell’intervista in cui la Arendt parla dei suoi amici intellettuali che diedero il proprio sostengo al totalitarismo tedesco – sono di questo tipo: «qui si interrompe e molto lentamente»; «qui la sua voce è soffocata. Dopo torna ad alzarla risolutamente, e il filo del pensiero si riannoda», «borbottio», «la voce dà  sul riso»; «Arendt, che abitualmente parla veloce e con fluidità , non può trattenere nel racconto un riso singolare. Quindi riprende il flusso del discorso».
Quelle che sembrano nulla di più di annotazioni di regia sulla performance di un attrice, in realtà  sono delle precise indicazioni interpretative: se, secondo la Knott, il ridere è un elemento decisivo del dispositivo di pensiero arendtiano che «insegna a preservare la fiducia negli esseri umani, nella forza di resistenza dell’umano contro l’ideologia e il terrore, contro l’oscurantismo, l’oppressione, il dogmatismo e la tirannia», allora, questo ridere non è solo un fatto concettuale, ma è innanzitutto un atteggiamento corporeo. Davanti alle telecamere la Arendt ride.
Oltre la dimensione concettuale, questo riso televisivo a parere della Knott indica qualcosa di altro: dovendo ricordare gli amici intellettuali tedeschi compromessi col regime «Hannah Arendt, adesso come allora, non era in grado di afferrare quell’esperienza in una frase conclusa. La parola continuava a fallire». Come dire, il riso, l’atteggiamento corporeo intervengono lì dove la sola parola non è sufficiente a spiegare quegli eventi particolarmente significativi della vita. Il libro della Knott, allora, invita non tanto a rileggere il testo La lingua materna, quanto a guardare l’intervista da cui è stato trascritto.
La visione della performance televisiva della Arendt ha guidato la Knott anche nell’elaborazione dell’ultimo capitolo del suo libro, quello dedicato al «drammatizzare». La cosa si fa particolarmente evidente dopo aver guardato l’intervista. Scrive l’autrice: «L’individuo è qualcuno che interviene e che, come l’attore, ha bisogno della scena, di colleghi e di spettatori, di un luogo sicuro per la sua manifestazione e di altri esseri che conoscano e riconoscano la sua esistenza». Non è difficile individuare nell’attore la Arendt «in immagine», nella scena gli studi televisivi della Seconda rete tedesca, negli spettatori i telespettatori che assistettero alla trasmissione, e nell’intervistatore Gaus colui che conobbe e riconobbe il genio dell’intervistata. Se la Knott, allora, parla di una «dimensione teatrale della teoria politica arendtiana» lo fa perché si riferisce a quel grande teatro messo in scena dalla Arendt nel corso dell’intervista televisiva.
Sono molteplici le sorprese che riserva la monografia della Knott. In primo luogo, al lettore: il rimando dal libro all’intervista su YouTube e da questa al libro, è il modo più attuale di praticare una lettura interattiva nell’epoca dei nuovi media. In secondo luogo, ai lettori de La lingua materna:, questo saggio non potrà  essere più «amministrato» dal solo codice della scrittura e da quello dei concetti, bisognerà  collegarli entrambi a quanto di non scritto e di altrimenti concettuale è tessuto nelle immagini televisive.
Rimozione degli ostacoli
In terzo luogo, ai teorici della società , e qui il discorso è un po’ più complesso. Per quanti si muovono nell’orizzonte di una sociologia che ancora si vuole marxista e non smette di lavorare nell’universo comunicativo della cultura di massa (fumetti, radio, cinema e tv) non è facile relazionarsi al dispositivo di pensiero arendtiano e questo per una ragione precisa. In ogni luogo della sua opera, in toni sempre duri e sprezzanti, da libri come Vita activa a Sulla rivoluzione fino a saggi «minori» come Brecht: il poeta e il politico, la Arendt non ha mai smesso di ricordarci la superiorità  della politica sulla società , i pericoli annessi al marxismo e il progetto di omologazione immanente alla cultura di massa.
Sicuramente il libro della Knott non rimuove tutti questi ostacoli, innanzitutto lo «scoglio» marxista, però, riportando in primo piano la natura «televisivo-teatrale» della teoria politica della Arendt è come se provasse a misurarne l’opera con il metro attuale dei media e con quello della sociologia contemporanea. In breve, apre nuovi percorsi di ricerca, impraticabili per la Arendt stessa, una donna «all’antica», come dice di sé ridendo nell’intervista.


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