Una campagna elettorale di vertice che non rispecchia i conflitti sociali

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Ma quest’anno è venuto alla luce un aspetto inatteso: il giuoco delle parti basta a se stesso, quasi fosse uno spettacolo, senza alcun collegamento con la dialettica delle diverse componenti sociali. Non rispecchia in altre parole nessuna tensione e/o conflitto: di classe operaia, di mondo contadino, di borghesia professionale, di ceto medio impiegatizio, di terziario più o meno avanzato; assistiamo quindi a una battaglia essenzialmente mediatica sovrapposta ad una anonima marmellata sociale.
E non si dica che tale constatazione sia frutto di nostalgia di un antico passato, visto che abbiamo tutti negli occhi la scena di Vicenza di pochi anni fa, quando Berlusconi, disprezzando i grandi imprenditori delle prime file, si rivolse alle ultime file, forse piene di vocianti claquer ma anche di più ruspanti protagonisti. Oggi egli e i suoi avversari non si avventurano a capire e gestire le tensioni conflittuali che pervadono un sistema da anni in crisi; preferiscono tutti farsi apprezzare in bonaria casalinghità .
Allora il conflitto è morto? Sappiamo tutti che la democrazia e lo sviluppo hanno sempre avuto bisogno di una certa dose di conflittualità , ma non è per tale convinzione intellettuale che si deve dire che il conflitto si aggira ancora fra noi. Basta percorrere l’Italia per constatare quanta rabbia circoli un po’ dappertutto; quante volte essa esploda anche senza preavviso; quanto sia facile incontrarla sulle piazze; e non solo quelle di Grillo, ma anche quelle della plurima manifestazione del 28 gennaio delle piccole e medie aziende chiamate a raccolta da Rete Imprese Italia. Ma perché allora la rabbia non diventa conflitto e il conflitto non diventa componente centrale della dialettica politica ed elettorale?
La risposta è duplice. In primo luogo perché oggi il conflitto è innescato dall’alto, da politiche di governo «indiscutibili» che lasciano ai cittadini solo spazi ristretti di adattamento e di sopravvivenza; due categorie queste che sono intimamente contraddittorie con la mobilitazione collettiva e con un conseguente conflitto sociale. Ed in secondo luogo, perché la «pressa» dei comportamenti esercitata dal rigore di governo appiattisce tensioni, rabbie e paure, lasciando ad esse di esprimersi solo in episodi isolati e lontani di «antagonismo erratico» (per l’alta velocità  in Val di Susa o per la questione rifiuti a Napoli o Palermo) che sfocia spesso nella propensione al populismo. Se continueremo a fare dall’alto interventi a forte carica di disagio collettivo, rischiamo di scivolare sempre più verso l’antagonismo erratico e il populismo.
Ma, ad esser onesti, l’incombente processo regressivo non è solo colpa delle manovre carismatiche della politica; in esso giuoca anche il declino di responsabilità  delle strutture di rappresentanza. Sono queste che per decenni hanno politicamente incanalato disagi, rabbia, antagonismi in più ampie forme di conflitto, gestendole nel confronto con i partiti e con i poteri pubblici. Ed era questa la radice nobile del collateralismo (politico e non solo banalmente partitico) che ha caratterizzato decenni di storia italiana, pur se molti hanno preferito etichettarlo come volgare corporativismo. Oggi cominciamo a sentire la mancanza del loro ruolo di coagulo del conflitto sociale: una mancanza dovuta un po’ all’ostentazione decisionistica della politica e un po’ al fatto che molte organizzazioni di rappresentanza sono tentate a fare diretto ingresso nella politica. Mentre è possibile che un passato centenario di vitale collateralismo possa ancora insegnare qualcosa per non restare nell’indistinto della rabbia, dell’antagonismo erratico, delle piazze, della strumentalizzazione populista.


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