Governo di convergenza per allontanare il voto

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Il balletto sulla maggioranza di governo continuerà  per settimane, ma già  oggi è chiaro che la disputa non è più su Palazzo Chigi bensì sul Colle, considerato lo snodo decisivo per gli assetti futuri di potere, l’à ncora a cui i partiti intendono aggrapparsi prima di tornare al voto.
È sulla presidenza della Repubblica che si gioca insomma la vera sfida, e il rischio è che la delicata trattativa possa trasformarsi in un regolamento di conti, provocando la rottura del vaso di Pandora. Perché il Quirinale — diventato negli ultimi anni un motore attivo nell’indirizzo politico — è l’ultimo punto di equilibrio in un sistema andato ormai a pezzi: se saltasse, il conflitto non avrebbe più quartiere.
E il rischio esiste, è maggiore dello stallo sulla formazione di una maggioranza di governo. D’altronde l’esito del voto ha decretato che palazzo Chigi non è più «scalabile» dai partiti della Seconda Repubblica, a cui toccherebbe al massimo un ruolo precario in un contesto già  proiettato verso le elezioni successive: questo sarebbe il destino dell’idea di Bersani, che si propone di varare un gabinetto di minoranza tenuto in vita dall’appoggio esterno dei grillini.
Si vedrà  se e in che modo Napolitano — vista l’intransigenza di M5S ad un accordo con il Pd — riuscirà  a trovare una soluzione alternativa. Se proverà  la carta di un esecutivo tecnico-politico, oppure se attingerà  a quella che è diventata ormai la «terza Camera», cioè Bankitalia, per un governo di «convergenza istituzionale» che — almeno nominalmente — non prevederebbe una «alleanza» tra Pd e Pdl ma solo un «appoggio» a un gabinetto guidato da un esponente di Palazzo Koch. Da giorni si fanno i nomi del governatore Visco e del direttore generale Saccomanni, che il centrosinistra accreditava come possibile ministro dell’Economia in caso di vittoria.
Questo governo — proiettato sul medio termine — avrebbe il compito di rassicurare i mercati, lavorare al rilancio dell’economia e garantire ai partiti il tempo necessario per varare le riforme in Parlamento, compresa la legge elettorale. La prospettiva al momento appare indigesta al Pd ma anche al Pdl, stanco di «governi dei banchieri». La soluzione — semmai si concretizzasse — sarebbe di sicuro più potabile di un Monti-bis, verso cui sono contrari le due forze politiche. Perciò le manovre fatte ieri dal Professore non avrebbero effetti.
L’incontro al Quirinale e la lettera che Monti ha inviato a Bersani, Berlusconi e al «signor Grillo» sono di certo un tentativo di annodare i fili del dialogo sotto l’ombrello europeo, in vista del vertice di Bruxelles. Ma sono vissuti come «espedienti tattici» dal segretario dei Democratici e dal leader del centrodestra, che li interpretano come un tentativo del Professore di rientrare in gioco. E non a caso il capo di M5S si pone in contrapposizione ai due avversari, evocando il nome di Monti come possibile successore di se stesso a palazzo Chigi. Il suo fine è scoperto: disarticolare ulteriormente il sistema imperniato su Pd e Pdl, agli occhi di un’opinione pubblica che ha bocciato alle elezioni l’alleanza di centro.
In ogni caso, qualsiasi soluzione di governo «tecnico» si realizzasse, i partiti avrebbero un ruolo marginale. Ecco perché è sul Quirinale che sono concentrate le attenzioni. E il tentativo del Pd di far pressione sul Colle per anticipare l’elezione del nuovo capo dello Stato è la prova di quanto cruenta si appresta ad essere la sfida e dei rischi che il vaso di Pandora vada in frantumi. È vero che Napolitano ha ribadito di non essere in corsa per una sua ricandidatura, sottolineando peraltro che un presidente della Repubblica «non è a termine», ma è altrettanto vero che al momento non appare facile la convergenza bipartisan su un altro candidato.
Anzi, a palazzo Chigi come nel Pdl viene accreditata la tesi che «una parte del Pd» sta lavorando ad una «operazione di maggioranza» per il Colle sul nome di Prodi, da rendere manifesta a ridosso delle votazioni per il Quirinale. Non è dato sapere se anche Casini sarebbe della partita. Per un centro che — dopo la sconfitta elettorale — sarà  chiamato a scegliere da che parte stare, potrebbero contare i buoni rapporti tra concittadini. I due bolognesi infatti hanno rapporti frequenti, e prima che Monti diventasse presidente del Consiglio, Prodi tenne una dotta lezione di economia al leader dell’Udc.
Numeri alla mano, per l’operazione potrebbero non servire i voti di Grillo, che peraltro — dopo esser stato corteggiato — ha fatto capire che potrebbe convergere «sul nome di Rodotà ». Ma è Prodi che Berlusconi vede come fumo negli occhi, ecco perché il Pdl già  grida al golpe. Il fondatore dell’Ulivo potrebbe essere l’à ncora del centrosinistra, in attesa di tentare la rivincita nelle urne. È scontato infatti che — dinnanzi a una simile operazione — il centrodestra salirebbe sulle barricate, interpreterebbe l’eventuale elezione dell’ex premier come un «fattore divisivo» e chiuderebbe al dialogo su tutto, compresa la legge elettorale.
La missione a favore di Prodi però non incontra i favori di tutto il Pd, dov’è iniziata una durissima battaglia. Il 18 marzo dovrebbero iniziare le consultazioni al Quirinale per il governo, ma il vero D-day sarà  il 15 aprile, quando inizieranno le votazioni per il Quirinale. Con un sistema a pezzi, con un Parlamento che è la somma di tante impotenze, un passo falso nella partita per il Colle provocherebbe la rottura del vaso di Pandora.


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