I numeri e il bivio di Napolitano Il rischio di un braccio di ferro

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ROMA — Il buio oltre il preincarico impedisce di capire quali saranno le sorti di Bersani, della legislatura e dello stesso sistema politico. L’unica certezza è che fino a giovedì — quando il segretario del Pd tornerà  al Quirinale — tutti rispetteranno il copione che si sono assegnati. Perciò era chiaro dall’inizio che le consultazioni dei partiti per la formazione del governo non sarebbero state risolutive, e che la vera partita inizierà  con l’incontro tra Napolitano e Bersani.
L’appuntamento al Colle si preannuncia delicato, c’è il rischio che le tensioni già  evidenti tra il capo dello Stato e il leader democratico possano trasformarsi in conflitto. Cosa farà  allora Bersani: tenterà  di forzar la mano, chiedendo al capo dello Stato il mandato pieno per verificare in Parlamento se il suo governo può conquistare i numeri sufficienti a garantirgli la fiducia? E come si comporterà  Napolitano: accoglierà  la proposta del «preincaricato» o si disporrà  alla costruzione di un gabinetto del presidente su cui dovrebbero convergere i voti di Pd e Pdl?
Perché se così fosse, se il presidente della Repubblica chiedesse a Bersani di passar la mano, la coalizione di centrosinistra — ad appena un mese dal voto — salterebbe e con essa andrebbe gambe all’aria anche il partito che ne è stato il perno. Non a caso ieri Enrico Letta ha iniziato a porre sacchetti di sabbia a difesa della trincea democratica, in vista dell’appuntamento al Colle: era indirizzato a Napolitano il messaggio in cui diceva che «qualunque tentativo dopo Bersani sarebbe un tentativo peggiore per l’Italia e per il Pd».
Una difesa fragile, che entrava infatti in contraddizione con il ragionamento appena sostenuto dallo stesso Letta, secondo cui «un ritorno alle urne con l’attuale sistema elettorale non risolverebbe nulla». Per un Pd sull’orlo di una crisi di nervi (e di una clamorosa spaccatura) era vitale non aprire ieri una discussione in direzione, perciò Marini ha chiesto e ottenuto che non si tenesse un dibattito. Quello, semmai, avverrà  dopo l’esito del colloquio tra Napolitano e Bersani, che in tutti i modi ha tentato finora di aprirsi un varco nel vicolo cieco in cui il risultato del voto l’ha cacciato. Anche perché, nemmeno una spaccatura tra i Cinquestelle gli permetterebbe di avere la fiducia al Senato, dato che un pezzo di Scelta civica ha preannunciato il proprio no a un esecutivo retto dai grillini.
E sul fronte del centrodestra l’asse Pdl-Lega resiste alle pulsioni autonomiste di un pezzo del Carroccio ostile al Cavaliere. Alla riunione con i gruppi parlamentari, Berlusconi ha spiegato che «Maroni si sta comportando bene, anche se di alcuni non si può dire altrettanto». Chissà  se davvero Bersani si era fatto delle illusioni con Maroni, probabilmente no, alla luce del colloquio con Alfano, avvenuto venerdì. In quella occasione il leader del Pd aveva illustrato al segretario del Pdl un piano per consentire il varo del governo in Parlamento, e che comprendeva anche l’accordo per il Quirinale.
Perché il nodo è quello, è sulla scelta per il Colle che si giocano le sorti della legislatura. Certo, Alfano aveva accolto di buon grado la prospettiva dell’elezione di un esponente moderato alla presidenza della Repubblica, indicato dal Pdl. «Purché sia potabile», aveva specificato il capo dei democratici. «Sì Pier Luigi, però ti devi render conto che non ci possono essere preclusioni nei nostri riguardi», aveva risposto Alfano: «Altrimenti è inutile stare a parlare. Di governicchi non ne faremo partire, perché non solo sono inutili ma anche dannosi».
Eppure nei suoi colloqui dopo la manifestazione di sabato, il Cavaliere spiegava che «se il Pd volesse fare con noi le larghe intese, allora accetteremmo un capo dello Stato indicato da loro. Altrimenti, se non se la sentissero, il prossimo capo dello Stato dovremmo indicarlo noi». Insomma, una sfumatura diversa che dà  l’idea del lavorio sotto traccia tra gli sherpa dei due partiti. Ma lo scetticismo che ha permeato il colloquio tra Bersani e Alfano si riflette nelle trattative riservate, ed è sintomo del fallimento.
In questo caso nel Pdl ci si chiede quale sia davvero il «piano B» del capo democrat per il Colle, ed è da decrittare quindi il messaggio cifrato lanciato ieri sera da Bersani, che — citando l’elezione dei presidenti delle Camere — ha aggiunto riferendosi al Quirinale: «Il cambiamento può avvenire in una chiave più aperta». Era un segnale a quei grillini tentati dalle avances del «preincaricato» e che vedono in personalità  come Zagrebelsky un punto di riferimento? E davvero in un Parlamento polverizzato ci sarebbero i numeri per portare a compimento questa missione?
Sembra impossibile, come sembra impossibile costruire una maggioranza per un governo che tutti chiedono, a partire dalle forze sociali. L’esigenza è dettata anche dall’immagine del gabinetto Monti, che — a parte gli apprezzamenti bipartisan per l’operato «europeo» di Moavero — appare devastata dal «caso marò», di cui incredibilmente non si è mai discusso in Consiglio dei ministri. Ma non è solo l’Italia con il fiato sospeso. Persino di là  dalle Alpi c’è chi fa il tifo per un esecutivo di larghe intese. La cancelliera Merkel, per esempio, che anche in Germania teme di sentire il frinire dei grilli.


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