Il mondo è tornato local

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Abbiamo ballato «Gangnam style », biascicando insensate imitazioni di parole coreane e, magari, abbiamo anche comprato un’auto indiana o cinese. Ma questo non vuol dire affatto che il mondo sia davvero diventato piatto. La celebre immagine con cui un giornalista, Tom Friedman, nel 2005, battezzò la globalizzazione è sempre stata «globaloney» una bufala globale, sostiene uno dei grandi guru del management, Pankaj Ghemawat. Il fatto che la «globalla», vera o falsa che sia, abbia avuto fortuna, comunque, conta ormai poco. La grande crisi finanziaria del 2008 ha stravolto i processi di globalizzazione, svuotandone alcuni, ingabbiandone altri, togliendo spinta e forza vitale a quella che sembrava una grande marea. E non è affatto detto che, ora che la crisi mondiale allenta un po’ il suo peso, tutto ricominci come prima. Anzi, osserva una grande società  di consulenza aziendale come McKinsey, c’è la possibilità  concreta della ritirata: la globalizzazione non ritrova più il passo, si ripiega su se stessa, si arrende ad un mondo frammentato.
Una cosa, però, è già  sicura: abbiamo scoperto che il mondo sarà , forse, anche piatto, ma è gibboso e pieno di curve.
Questo non vuol dire che, in futuro, non alterneremo sempre più spesso la pizza con il pollo sudafricano al piripiri o che in agguato, in tv, non ci aspetti, comunque, un serial girato negli studios di Mumbai. Ma questa globalizzazione virtuale non è l’altro braccio di una inevitabile ulteriore globalizzazione materiale, in cui distanze e differenze sono già  azzerate e il mondo è una serie di vasi perfettamente comunicanti, dove persone e cose si muovono senza ostacoli. Ovvero, ci sarà  stata anche la morte della distanza — uno slogan famoso quasi come quello del mondo piatto — ma se ne sono accorti in pochi. Solo il 3 per cento della popolazione mondiale, elenca Ghemawat, vive al di fuori del paese in cui è nato e il 90 per cento non uscirà  mai dai confini del proprio paese.
Con una forte tendenza a starsene per conto proprio. Solo l’1 per cento della posta normale (quella con il francobollo, per capirci) attraversa i confini nazionali e, soprattutto, lo fa solo il 2 per cento delle telefonate. Perché c’è Internet? Non si direbbe, secondo Ghemawat. La Rete è mondiale, ma solo il 17-18 per cento del traffico raggiunge siti o persone di altri paesi.
Naturalmente, è solo una questione di soldi. Nel senso che, dove si muovono i soldi, dietro arriva la gente. In termini meno bruschi, più le economie si integrano, più si integrano informazione e cultura. Ed è qui il problema. All’apice del processo di globalizzazione, le esportazioni combinate di tutti i paesi raggiungevano appena un quinto del Pil mondiale. E questa quota, invece, di crescere sta diminuendo. Dopo il crollo del 2009, il commercio mondiale era rimbalzato con vigore nel 2010, ma si è successivamente assestato su ritmi storicamente assai blandi. Negli ultimi 20 anni, in media, sottolinea Pascal Lamy, direttore del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, gli scambi sono cresciuti ad un passo annuale del 5,4 per cento. Ma, negli ultimi tre, c’è stata una frenata: 5 per cento nel 2011, 2,5 per cento (contro una previsione troppo ottimistica del 3,7 per cento) nel 2012, 4,5 per cento (si spera) previsto per il 2013. Non è l’unico segnale negativo che avvista Lamy. Un’ondata protezionistica, dopo la crisi, non c’è stata, ma ostacoli tariffari e doganali sono stati alzati da più parti, paesi come l’Argentina e, in misura assai minore, il Brasile, hanno reintrodotto misure di controllo dei capitali, accordi per facilitare gli scambi si fanno, ormai, sempre più a livello regionale e l’ipotesi di un grande accordo mondiale di libero scambio si fa sempre più remota.
Vento contro o bonaccia non giustificherebbero, tuttavia, un’inversione della rotta. Come aveva intravisto Friedman, il nocciolo duro della globalizzazione è altrove: non nella integrazione commerciale, ma in quella produttiva. Quelle «catene di valore», come le chiamano gli economisti, per cui la lavorazione di un prodotto, fra subforniture, forniture, lavorazioni, finiture ecc., rimbalza da un paese all’altro, fino ad arrivare sui listini di vendita. Le maglie di queste catene sono strette, robuste e, a reggerne i capi, sono poche mani. L’Onu calcola che l’80 per cento del commercio mondiale passa attraverso le reti di fornitura gestite dalle multinazionali. In cifre, vuol dire che, su 19mila miliardi di dollari di esportazioni di beni e servizi, solo 4 mila miliardi fanno capo ad aziende, medie o grandi, ma, comunque, di respiro nazionale. Il resto
— 15 mila miliardi di dollari — passa attraverso le reti produttive internazionali delle multinazionali. Non è questo, però, il dato più significativo. Per trovarlo, bisogna guardare alle analisi più recenti, che scorporano la duplicazione dei dati doganali. In altre parole, se io esporto il rame dal Cile in Cina, questo viene contato come esportazione. Ma quando, poi, quel rame, inserito in un cavo elettrico, viene rivenduto all’estero come esportazione cinese, il valore del minerale è stato calcolato due volte. Il caso più clamoroso è quello dell’iPhone della Apple, che viene calcolato come esportazione cinese, anche se il valore che, con l’assemblaggio in Cina, viene aggiunto ai diversi materiali importati da Usa, Giappone, Corea ecc. è solo di pochi dollari. Questo scorporo delle duplicazioni mostra quanto siano robuste e massicce le «catene di valore» messe insieme dalle multinazionali. Dei 19mila miliardi di dollari di export, 5 mila miliardi, quasi il 30 per cento, sono in realtà  frutto dell’accumularsi di passaggi, attraverso i confini, di semilavorati, che vengono contati e ricontati, fino a gonfiare la bolletta doganale finale.
Ma sono proprio così solide quelle maglie? Oggi, si direbbe, un po’ meno di due o tre anni fa. L’inarrestabile migrazione di fabbriche verso le terre dei bassi salari, Cina in testa, era, a quanto pare, arrestabile. Si continua ad andare in Cina, per essere vicini all’enorme mercato cinese, ma non necessariamente per riesportare in Occidente. General Electric, Apple, Google, Caterpillar, Ford, Lenovo stanno
tutte riaprendo, o prevedono di riaprire fabbriche negli Stati Uniti, da cui erano scappati, ancora tre anni fa. Un sondaggio mostra che tuttora il 23 per cento delle aziende, nel mondo, pensa all’offshoring, cioè a trasferire all’estero le proprie attività  produttive. Ma, ora, c’è un 19 per cento che pensa al reshoring, ovvero a riportarle in patria. Dietro questa inversione a U ci sono ragioni economiche tanto solide, quanto quelle che avevano consigliato di emigrare. Il costo del lavoro, in Cina, non è più quello di una volta. Negli ultimi dieci anni, i salari sono aumentati del 20 per cento l’anno, cioè, in totale, sono triplicati. Restano venti volte e più inferiori a quelli corrispettivi americani, Ma ci sono altri parametri ad allarmare le imprese: negli ultimi quattro anni, la crescita dei salari ha sistematicamente superato quella della produttività , compromettendo un fattore essenziale nel fascino del made in China. Soprattutto, in regime di automazione crescente, il costo del lavoro conta, di fatto, sempre meno. Ge ha scoperto di poter produrre, in Kentucky, lo stesso numero di lavapiatti di una volta, con un terzo dei lavoratori. Invece, diventano appariscenti altri costi. Il trasporto: in tempi di petrolio fermo a prezzi record, la fila dei container nell’immensità  del Pacifico zavorra i conti. Anche i tempi pesano: ci vogliono sei settimane per portare una lavapiatti o un iPad da Shanghai a Los Angeles. Nell’epoca dell’in time delivery, è una eternità . Non sono regole che valgono per tutti, ma indicano che l’asse principale su cui, a cavallo del secolo, si è sviluppata la globalizzazione — il mantra del made in China — non è superato, ma neanche scontato.
L’integrazione produttiva si fa più variegata, la geografia della globalizzazione si ridisegna, con un respiro, forse, meno planetario. Troppo poco per parlare di ritirata e anche di battuta d’arresto. Ma il cambio di ritmo lascia dei dubbi, frutto anche dello stop — questo sì vistoso — che sta avvenendo sull’altro asse della globalizzazione, quello che fa da pendant all’integrazione produttiva, la sostiene, la alimenta: la globalizzazione finanziaria. E’ la finanza, infatti, che deve lubrificare, alimentare il circuito degli investimenti, moltiplicare fabbriche e posti di lavoro. Lo ha fatto in questi anni? La risposta è no. O, più esattamente, lo ha fatto di risulta, a margine, mentre pensava ad altro. A cosa? A gonfiare se stessa. Il totale degli attivi finanziari mondiali (azioni, obbligazioni, prestiti) è esploso dai 12 mila miliardi di dollari del 1980 ai 206 mila miliardi del 2007. Un boom che ha perso ogni rapporto con il parallelo andamento dell’economia reale: nel 1980, azioni, obbligazioni e prestiti erano pari al 120 per cento del Pil. Nel 2007 erano arrivati al 355 per cento. Ma di questa enorme montagna di soldi, rivela lo studio di McKinsey, solo un quarto è effettivamente arrivato nelle tasche delle famiglie e delle imprese. “Una quota — osservano asciutti gli analisti della grande società  di consulenza — incredibilmente piccola, visto che questo è il compito fondamentale della finanza”. Il grosso è andato (oltre che ai debiti pubblici) a ingigantire la finanza stessa. E’ la grande bolla, esplosa nel 2008, trascinando con sé crisi e recessione. La finanza è colata a picco: dal 355 per cento del Pil, la pila dei titoli si è ridotta al 300 per cento. Cresceva ogni anno di quasi l’8 per cento, oggi non arriva al 2 per cento. L’implosione è avvenuta nei paesi avanzati, ma ha colpito anche quelli emergenti.
Contemporaneamente, i capitali hanno smesso di muoversi. I flussi internazionali erano pari ad appena 500 miliardi di dollari nel 1980, ma erano schizzati a quasi 12 mila miliardi nel 2007. Ora si sono sgonfiati di oltre il 60 per cento. Dopo cinque anni di crisi, la fine della frenesia e dell’isteria finanziaria, un ridimensionamento della speculazione rampante possono apparire benvenuti. Ma il rischio, avverte lo studio di McKinsey, è che il pendolo si muova eccessivamente in senso opposto: l’economia reale ha bisogno dei soldi che procura la finanza. In questo senso, la globalizzazione, secondo lo studio, si trova ad un bivio. Se non riesce a rilanciare i capitali, evitando i passati eccessi, si rischia il ristagno. Ai ritmi attuali, il valore di azioni, obbligazioni e prestiti, rispetto al Pil, resterà  più o meno quello di oggi. Senza investimenti dal-l’estero, senza nuove emissioni di titoli e obbligazioni, in molti paesi le imprese potranno rivolgersi solo alle limitate risorse delle banche nazionali: il risultato sarà  una stretta al credito. Nei paesi con fondi in eccesso, invece, mancheranno le occasioni di investimento. E’ la leva della globalizzazione che si muove a rovescio.


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