La Corea del Nord punta i suoi missili contro le basi Usa

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PECHINO — L’annunciatrice della tv nordcoreana ha scandito il comunicato con voce impostata: «Da questo momento, il comando supremo dell’esercito popolare della Corea sta mettendo in posizione di combattimento Numero 1 tutte le unità  di artiglieria da campagna, comprese quelle a lungo raggio e le unità  missilistiche strategiche. Sotto tiro saranno poste tutte le basi Usa nelle Hawaii, a Guam e sul continente americano». Nessun cenno ai bersagli sudcoreani, ma questi erano stati già  minacciati di annientamento nelle scorse settimane, subito dopo il rafforzamento delle sanzioni votato dal Consiglio di Sicurezza Onu in risposta a un test nucleare del Nord.
Il portavoce della Difesa, a Seul, ha commentato di non essere a conoscenza del significato di «posizione Numero 1» e ha sostenuto che l’intelligence non aveva notato segnali di uno stato particolare di preparazione all’attacco. Ma proprio ieri la presidentessa sudcoreana Park stava partecipando a una cerimonia in memoria dei 46 marinai di una corvetta affondata nel marzo del 2010 da un siluro (anche se il Nord ha sempre negato di aver aperto il fuoco).
Gli esperti americani non credono che il Nord abbia la capacità  di colpire con missili a lunghissimo raggio. Gli analisti pensano che Kim Jong-un, terzo dittatore della dinastia familiare instaurata a Pyongyang da Kim Il-sung, ordinerebbe l’uso di ordigni nucleari solo se vedesse il suo regime minacciato. E questo per il momento non sembra il caso. Anche perché la Cina, dopo aver votato le sanzioni Onu, ha cercato di invitare l’alleato alla ragionevolezza e anche ieri ha chiesto «calma a tutte le parti».
Però il Pentagono ha annunciato qualche giorno fa il piano di rafforzamento della presenza militare nella regione con l’invio di caccia F-22 Raptor e dei grandi bombardieri B-52. Per la sorveglianza saranno utilizzati altri aerei spia U-2.
Armamentario da Guerra Fredda che peraltro non serve a fare luce sulle intenzioni di Kim Jong-un. Del «giovane leader» si sa con certezza solo che è salito sul trono del cosiddetto «regno eremita» nel dicembre del 2011, dopo la morte per infarto (pare) del padre Kim Jong-il, a sua volta succeduto a Kim Il-sung, l’uomo che nel 1950 aveva scatenato la guerra di Corea.
In quasi due anni, nessun inviato americano di alto livello (ma neanche di basso) è riuscito a vederlo per aprire un dialogo. L’ambasciatore britannico a Pyongyang, per avere un breve incontro, fu costretto ad accettare un appuntamento surreale al lunapark di Pyongyang e a salire sulle montagne russe. Poi spiegò con flemma che ogni «occasione di conoscenza è vitale». Qualche settimana fa Kim ha ricevuto Dennis Rodman, vecchia gloria del basket americano noto per le sue stranezze. La star ha fatto sapere che Kim parla un po’ d’inglese, che recentemente ha avuto una figlia e che il suo sogno sarebbe di poter stringere la mano a Michael Jordan, altra icona della pallacanestro Usa.
Se questo è tutto quello che gli americani sanno dell’uomo che minaccia di «trasformare Seul in un mare di fiamme» c’è poco da stare tranquilli. Anche perché, se pure è vero che i nordcoreani non hanno ancora la tecnologia per armare un missile con una testata nucleare, per scatenare l’inferno sulla capitale del Sud basterebbero i cannoni con proiettili «convenzionali» attestati sulla linea del 38° parallelo: sono distanti meno di 60 chilometri.
Guido Santevecchi


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