Solo un po’ d’ imbarazzo per Kenyatta presidente

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Il paese si ritrova – come il Sudan – con un capo di stato messo sotto accusa dalla giustizia internazionale. Ma la cosa non sembra affatto spaventare gli investitori stranieri, né incrinare la solida amicizia con gli Usa e con Israele Non più solo il Sudan di Omar Hassan Bashir. Con l’elezione di Uhuru Kenyatta alla presidenza della Repubblica – confermata ieri dalla Corte suprema – il Kenya è diventato, il 4 marzo scorso, il secondo paese africano ad affidare la più alta carica dello stato a un politico inquisito per crimini contro l’umanità  dalla Corte penale internazionale (Cpi). Eppure questo non sembra aver incrinato la fiducia degli investitori stranieri e ha solo creato una sorta di farsesco imbarazzo presso l’amministrazione statunitense. In Sudan, decenni di guerra civile e di instabilità  hanno reso il paese economicamente e politicamente isolato dal resto del mondo. Prova ne è il fatto che a novembre 2011 l’East african community (Eac) ha respinto la richiesta di membership e nel 2012 Obama gli ha rinnovato le sanzioni economiche imposte più di dieci anni fa.
La Repubblica del Kenya invece è tra gli stati fondatori nel 1999 dell’Eac insieme a quelle di Tanzania e Uganda a cui si sono aggiunte nel 2007 Ruanda e Burundi. Unico Paese africano insieme alla Nigeria ad essere inserito nel banchmark del Msci frontier markets index, ha realizzato nel 2012 la seconda migliore performance tra i 25 stati che ne fanno parte. La partecipazione straniera a quello che costituisce il più grande mercato azionario dell’Africa orientale, rappresenta più del 50% ed è in aumento. Nairobi è sede della più grande ambasciata americana, ospita uffici dell’Onu e i quartieri generali di multinazionali come Ibm, Google, PwC, Wpp, Bharti Airtel, Nokia / Siemens, Huawei, Procter & Gamble, Biersdoff, Barclays e Stanchart e molte altre, tutti pesi massimi del mercato mondiale che su territorio kenyota formano un hub di investimenti in espansione verso l’Africa Sub-sahariana. Paese di strategica importanza inoltre nella lotta ad al Qaeda, i servizi di intelligence kenyoti collaborano a stretto contatto con quelli americani. Ma oltre che dell’appoggio della Comunità  Europea, che è anche suo partner commerciale e degli Stati Uniti, gode di solide relazioni diplomatiche con Israele che ha non pochi interessi strategicomilitari ed economici in Kenya. Nel novembre del 2011 i due Paesi in occasione di una vista di quattro giorni dell’allora primo ministro Raila Odinga nello stato ebraico, firmarono un protocollo d’intesa in materia di cooperazione per la sicurezza nazionale.
Tra i vari punti, anche l’accordo per la creazione di una coalizione comprendente oltre al Kenya anche Etiopia, Sud Sudan e Tanzania contro i gruppi radicali islamici legati ad Al Qaeda attivi soprattutto nella zona di frontiera. Significativo il fatto che il protocollo fu firmato un mese dopo che il Kenya aveva lanciato la sua «Operation Linda Nchi» ( Defend the Country ) in Somalia contro i terroristi di al Shabaab, considerati la minaccia più importante agli interessi turistici della zona costiera. Il corridoio del petrolio In realtà , come svelato poi da Wikileaks con il cablogramma di una conversazione tra l’allora ministro degli esteri kenyota Wetangula e l’assistente alla segreteria per gli affari africani Johnnie Carson, in margine a un vertice ad Addis Abeba nel 2010 dell’Unione africana, «l’iniziativa Jubaland» era già  stata pianificata da tempo con l’intento di costruire una zona cuscinetto e una regione autonoma per difendere gli interessi del Kenya nella zona di confine con la Somalia.
 Iniziativa verso la quale sia Stati uniti che Etiopia e Uganda si dimostraono inizialmente scettici. Ma i piani economici governativi del Kenya per il rafforzamento della sua posizione economicamente e logisticamente strategica vanno ben oltre. Firmati i protocolli di intesa con Sud Sudan ed Etiopia, a maggio 2012 è stato ufficialmente celebrato l’avvio di inizio lavori del South Sudan Ethiopia Transport (Lapsset) Corridor project che prevede la costruzione di una nuova rete ferroviaria e stradale, una raffineria di petrolio, un oleodotto, due aeroporti a Lamu e Isiolo e il porto di Lamu. Un grande progetto di collegamento commerciale il cui studio di fattibilità  e progettazione è stato finanziato dalla Banca Mondiale. Secondo le stime del ministero kenyota gli investimenti annuali previsti dovrebbero aumentare la crescita del Pil di oltre il 10%. Insomma, pare altamente improbabile che l’Occidente possa considerare l’ipotesi di sanzioni contro il Kenya se Kenyatta venisse condannato dalla Corte dell’Aja. Per le multinazionali fa poca differenza che a reggere il Paese sia Kenyatta o Odinga e sono state invece maggiormante incoraggiate in questi anni dalla capacità  della banca centrale kenyota di mantenere stabile la valuta e rassicurate dall’introduzione nel 2010 della nuova carta costituzionale che prevede la riforma giudiziaria e un sistema governativo decentrato.
Altri sarebbero i fattori di incertezza al momento: il processo che il neoeletto presidente dovrà  affrontare nei prossimi mesi – e quindi il vuoto politico che ne conseguirebbe – e il respingimento del ricorso di Odinga presso la Suprema Corte contro l’outcome presidenziale per brogli. In un contesto plurietnico e tribale come quello kenyota, entrambi potrebbero rivelarsi i detonatori soprattutto delle aree di frontiera. Le tensioni in questa zona sono il sintomo di uno squilibrio politico ed economico che intacca le prospettive di crescita e gli investimenti nell’area circostante la città  portuale di Mombasa, vitale centro economico e seconda città  più grande dopo Nairobi, dove il malcontento di lunga data evidenzia l’incapacità  del governo centrale di distribuire equamente la ricchezza nazionale. Gli scontri scoppiati nella regione costiera dell’Oceano Indiano poche ore prima dell’apertura dei seggi tra circa duecento uomini mascherati e la polizia locale sarà  forse servito da monito ai politici in gara sulle problematiche che da decenni ormai strangolano l’area di frontiera della più grande economia dell’Africa orientale. Altro che spiagge bianche Mombasa, lungi dal rappresentare solo distese di spiagge bianche che attraggono ogni anno milioni di turisti da tutto il mondo, costituisce soprattutto il centro di transito commerciale verso tutta l’Africa orientale e i paesi occidentali. Solo nel 2012 vi sono transitate circa 22 milioni di tonnellate di merci, di cui circa i due terzi destinati ai paesi confinanti, i quali, non avendo sbocco sul mare, dipendono quasi totalmente dal suo funzionamento.
 Da qui partono, su strade a una sola corsia, i tir verso i Paesi vicini. E poco è cambiato da quando nel 2010 un rapporto della Banca Mondiale ha evidenziato come costa molto meno trasportare un container da Tokyo a Mombasa che dalla zona costiera kenyota nella vicina Uganda. E mentre la spedizione di un container da Singapore in Kenya ci impiega 19 giorni, a un camion ne servono più di 20 per raggiungere Nairobi da Mombasa. Disoccupazione elevata, tassi di tossicodipendenza crescenti, fogne a cielo aperto, baracche fatiscenti e cumuli di rifiuti per le strade: questo lo scenario comune nei quartieri popolari della zona portuale laddove a pochi chilometri di distanza alberghi a 5 stelle, molti di proprietà  di israeliani, fanno da framework alle gettonatissime mete balneari. L’area portuale soffre della mancanza di infrastrutture idonee e di collegamenti stradali in pessime condizioni.
Le uniche violenze durante le elezioni si sono registrate intorno a Mombasa e la polizia ne attribuisce la responsabilità  al Mombasa Republican Council (Mrc), un gruppo separatista che reclama la secessione della regione costiera, in grado di attrarre numerosi giovani senza occupazione e sostenuto dalla popolazione locale. In questa zona di frontiera il malcontento e un profondo senso di ingiustizia sociale sono talmente dilaganti e radicati che neanche le prospettive di decentramento introdotte dalla riforma costituzionale del 2010, i piani per la creazione di un nuovo porto a Lamu, a nord di Mombasa, e di un settore gas-petrolifero a seguito di recenti ritrovamenti da parte della britannica Tullow Oil, sono riuscite scalfirlo. Corruzione decentralizzata L’istituzione delle nuove 47 provincie e l’elezione di nuovi governatori locali potrebbe in teoria giocare un ruolo importante nella ridistribuzione delle ricchezze, ma anche in questo caso è più forte il timore che l’assegnazione di maggiori poteri ai politici locali servirebbe solo a decentralizzare i costumi corrotti dei governanti e la loro abilità  a dirottare i fondi statali. In teoria i paesi occidentali e i partner commerciali e poltici del Kenya avrebbero già  altre ragioni per essere imbarazzati.
 Tra queste la crisi umanitaria più volte e da più organizzazioni umanitarie denunciata, da ultimo, un mese fa Human Rights Wathch (Hrw), e le nuove misure per i rifugiati annunciate dal vecchio governo prima delle ultime elezioni. Il 13 dicembre scorso un comunicato stampa del Department of Refugee Affairs (Dra) ha reso noto il piano delle autorità  kenyote che prevede, in violazione degli obblighi giuridici internazionali, lo spostamento forzato di tutti i richiedenti asilo e dei rifugiati somali dalle aree urbane nel campo profughi di Dabaab, vicino al confine con la Somalia mentre quelli di altra nazionalità  nel campo di Kakuma. Si pensi che nel solo campo di Dadaab, a circa poche centinaia di chilometri dalla zona portuale, sono stipati almeno 450.000 rifugiati in uno spazio destinato a 170.0000. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), alla fine del 2012, vi erano in Kenya circa 46.540 rifugiati registrati urbani, tra cui 33.246 somali. Oltre a 6.832 richiedenti asilo registrati urbani di varie nazionalità , tra cui 447 somali. Ma davvero, gli Stati uniti, il cui Citizenship and immifration services nel maggio 2012 ha esteso la concessione del Temporary protected status (Tps) ai cittadini somali su territorio statunitense, avrebbero bisogno di una condanna definitiva di Kenyatta per imporre sanzioni al Kenya?


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