25APRILE Storia di una festa civile nata per essere condivisa

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«È la prima volta che mi accorgo di avere una Patria come qualcosa di mio, di affidato, in parte, anche a me»: lo annotava all’indomani del 25 luglio del 1943 Pietro Chiodi, professore di liceo ad Alba, e di lì a poco l’8 settembre avrebbe portato alla luce differenti opzioni. La scelta della Resistenza, su cui Claudio Pavone ha scritto pagine finissime, e quella opposta, ma anche quella «rassegnata stanchezza indomita del popolo italiano» sferzata amaramente da Ada Gobetti.

E un ampio snodarsi di generosità , incertezze, paure, in uno scenario in cui quadri mentali consolidati crollavano assieme al fascismo. «C’era la sensazione di essere coinvolti in una crisi veramente radicale», ha scritto Luigi Meneghello: «che cos’è l’Italia? Che cos’è la coscienza? Che cos’è la società ?». Si leggano le lettere al padre scritte allora da Giovanni Pirelli: «mi sento vuoto», annotava alla vigilia dell’8settembre, «perché tutto si è disciolto, ciò che mi pareva saldissimo, nella realtà  dei fatti». E la scelta resistenziale implicava percorsi sin lì impensabili: «per molti di noi – ha ricordato Italo Calvino – rifiutare la mentalità  fascista voleva dire innanzitutto rifiutarsi di amare le armi e la violenza», ora eravamo di fronte ad un mutamento drastico.

Avrebbe innescato processi molteplici, la congiuntura drammatica del 1943-45. Con percorsi diffusi di “resistenza civile”, intrecciati o affiancati alla lotta armata, ma anche con mille forme di “non scelta”, o di presa di distanza da un conflitto che aveva in sé il rischio quotidiano della tragedia, dell’incrudelirsi del vivere. Una grande complessità , che non può però nascondere un aspetto centrale: si affermarono allora modi di “essere italiani” in contrasto aperto con altri. Nella scelta di donne e uomini prese corpo insomma la polemica di Piero Gobetti contro la “società  degli Apoti” propugnata da Giuseppe Prezzolini nel 1922: la società  di coloro che “non la bevono”, distanti allora tanto dal fascismo trionfante quanto dall’antifascismo soccombente (e portati in realtà  a prosperare all’ombra del primo).
Di qui la forza di orientamento reale venuta dalla Resistenza: «Occorre rifare l’Italia e gli italiani insieme», scriveva Carlo Dionisotti nel ‘45. Di qui un sostegno all’etica pubblica capace di farsi sentire in più occasioni nella vicenda successiva. Molto meno, certo, di quel che sarebbe stato possibile. Più debole del dovuto, e del necessario, nell’influenzare la vita della Repubblica. Perché? Pesaronella
no certo le contraddizioni stesse dell’antifascismo, e pesò il modo con qui il 1943-45 fu vissuto nelle differenti parti dell’Italia, ma la risposta rimane insufficiente se non si considera anche la “memoria pubblica” posta poi in essere, nei differenti climi politici. Si pensi alla “guerra fredda”, quando la discriminante anticomunista venne a prevalere su quella antifascista e la Resistenza fu largamente emarginata (e sostanzialmente mutilata) “ufficialità ”.
Ci vorrà  la mobilitazione antifascista del luglio ’60 contro il governo Tambroni e il congresso missino per mutare il clima e innescare il processo che avrebbe portato al centrosinistra. Allora il panorama certo mutò, ma si ebbe anche una sorta di cortocircuito non virtuoso: dalla rimozione della Resistenza ad una ufficializzazione retorica di essa che ne banalizzava spesso contenuti, ragioni, contraddizioni. Dall’oblio ad una memoria pubblica astrattamente apologetica che si sovrapponeva alle differenti memorie private senza riuscire a risolverle in sé. Senza offrire realmente ad esse un orizzonte comune.
Venne poi il ’68, con la contrapposizione ideologica fra “Resistenza rossa” e “Resistenza tricolore” (ma anche con interrogativi reali sulla nostra democratizzazione incompiuta). E venne anche una attualizzazione dell’antifascismo drammaticamente provocata da una “strategia della tensione” intessuta di terrorismo neofascista e trame eversive (ma la Milano accorsa ai funerali delle vittime di Piazza Fontana disse subito al Paese che quella strategia non sarebbe passata). Venne infine la tragica deformazione brigatista con i suoi caricaturali simboli, e al dissolversi di quell’incubo, nella conclamata “fine delle ideologie”, emerse una opposta e ben più diffusa deformazione di memoria.
«La libertà  sembra diventata ormai quella di poter dimenticare » scriveva il Censis al declinare degli anni Ottanta: registrava così un dissolversi del senso storico che aveva al centro una “riappacificazione morbida” con il passato, in particolare con il passato fascista. In quel quadro, anche, “i vinti” divennero non più gli emarginati e i deboli ma i fascisti e i torturatori di Salò, e nel 2003 Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa si limitò a proseguire un ciclo. Un ciclo rafforzato nel 1994 dalla vittoria di un centro-destra che comprendeva il Msi non ancora depurato a Fiuggi e, soprattutto, aveva come perno un’ideologia e un modo di “essere italiani” che apertamente confliggono con lo spirito del 25 aprile (il discorso di Berlusconi ad Onna nel 2009 fu un’isolata e quasi inspiegabile eccezione). Comprendiamo meglio, allora, quella tenace estraneità  se non avversione al 25 aprile di una parte del Paese: quella data è lì a ricordare a tutti che ci fu un’Italia che seppe scegliere. Seppe pagare di persona per le proprie idee e per il bene comune.


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