Distrutte le intercettazioni Quirinale-Mancino

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ROMA — A volte capita che l’intreccio di date e scadenze provochi coincidenze dal sapore simbolico. E con le quattro telefonate tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino intercettate casualmente, sembra sia andata proprio così. Giovedì scorso la Corte di Cassazione aveva deciso, in un’udienza fissata da tempo, che dovevano essere distrutte; era lo stesso giorno in cui il Parlamento in seduta comune cominciava a votare per eleggere il nuovo capo dello Stato. Le votazioni hanno avuto l’esito che conosciamo, fino alla rielezione di Napolitano. E ieri, giorno del secondo insediamento e del secondo giuramento, quelle registrazioni sono state materialmente distrutte; in concomitanza con il deposito delle motivazioni della sentenza della Cassazione. 
Coincidenze fortuite, che però assumono un innegabile valore emblematico: il conflitto istituzionale, giuridico e giudiziario ingaggiato e vinto dal presidente della Repubblica contro la Procura di Palermo, ha avuto il suo epilogo mentre s’iniziava il secondo mandato dello stesso presidente. Nelle motivazioni della Corte suprema è scritto che le intercettazioni del capo dello Stato, ancorché accidentali come nel caso dell’indagine sulla presunta trattativa tra rappresentanti delle istituzioni e di Cosa nostra nel biennio stragista 1992-1994, costituiscono «un vulnus costituzionalmente rilevante». Una ferita alla «protezione e riservatezza assoluta» di cui godono le comunicazioni presidenziali che, come ha stabilito la Corte costituzionale risolvendo il contrasto tra Napolitano e i magistrati palermitani, poteva essere sanata solo con la loro cancellazione; senza che nessuno potesse ascoltarle, tranne il giudice chiamato a verificare che la voce incisa fosse effettivamente quella del presidente e che non venissero lesi «interessi supremi e inviolabili» di altri cittadini. 
E’ quel che è avvenuto ieri nell’aula bunker dell’Ucciardone, nonostante il ricorso dell’imputato Massimo Ciancimino (accusato di concorso in associazione mafiosa e calunnia nel processo che comincerà  a fine maggio) il quale insisteva a volerle ascoltare. Voleva controllare che non ci fossero elementi utili alla sua difesa, ha continuato a dire, nonostante la Procura e il giudice avessero già  stabilito che le conversazioni tra Napolitano e Mancino non avessero alcuna attinenza con l’indagine. Di qui il ricorso in Cassazione, respinto perché le sentenze costituzionali sono vincolanti per pm e giudici, e su di esse «non è consentita contestazione». La pronuncia sulle intercettazioni del capo dello Stato, inoltre, è di una tale «chiarezza» da non lasciare spazio ad altre ipotesi di incostituzionalità , come quelle evocate dai difensori di Ciancimino che chiedevano un ulteriore rinvio alla Consulta e ora annunciano di volersi rivolgere alla Corte europea dei diritti dell’uomo. 
Ma dopo tanti contrasti e polemiche, la vicenda è definitivamente chiusa. Le ragioni con cui dieci mesi fa Napolitano motivò il conflitto con i magistrati di Palermo hanno trovato pieno accoglimento. Non solo gli inquirenti non dovevano valutare la rilevanza di quei colloqui per l’inchiesta, ma il fatto di conservare le registrazioni in cassaforte, in attesa di distruggerle dopo averne dato comunicazione alle varie parti processuali (come ipotizzato dalla Procura), costituiva una «menomazione delle prerogative del presidente della Repubblica». L’eventuale ascolto da parte di altri (per esempio Massimo Ciancimino, ma anche Salvatore Borsellino che ha reclamato un analogo, presunto diritto) avrebbe «aggravato gli effetti lesivi». 
La scelta del capo dello Stato fu spiegata con l’esigenza di proteggere non la figura di Napolitano ma l’istituzione che rappresentava. Quella decisione fu uno degli ultimi atti a cui collaborò il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, a sua volta coinvolto in alcune polemiche perché intercettato mentre parlava con Mancino, morto pochi giorni dopo l’annuncio del ricorso alla Consulta. Ora le quattro conversazioni registrate casualmente e sempre rimaste segrete, non esistono più. In nessuna forma, nemmeno scritta, giacché — specificarono i magistrati palermitani — non furono neppure sbobinate. 
Giovanni Bianconi

 


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