I Il referendum che divide Taranto

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Il 14 aprile i tarantini voteranno due quesiti che prospettano da un lato la chiusura totale o parziale (cioè della sola area a caldo e dei parchi minerali) dell’Ilva, dall’altro (si suppone, visto che nulla si dice) il mantenimento delle condizioni attuali.
Se, quando è stato proposto nel 2010, il referendum (consultivo) aveva valenza di pressione nei confronti di chi (amministrazioni varie e azienda) non ha dimostrato alcuna reale volontà  di porre rimedio agli innumerevoli danni provocati su scala ambientale, sanitaria, sociale, la sua indizione in questo momento può diventare per loro un’ottima occasione per lavarsi definitivamente le mani: se dovessero vincere i sì la responsabilità  di una molto eventuale chiusura sarebbe scaricata sui votanti; in caso contrario, o se il quorum non si dovesse raggiungere, gli arrestati a domicilio e i loro sodali riterrebbero di avere la popolazione dalla loro parte. Per non dire del fatto che voteranno solo i tarantini, mentre l’area compromessa è molto più vasta e i lavoratori dell’Ilva hanno provenienze diverse.
In ogni caso il referendum diventa un pesante strumento di divisione fra la popolazione. Divisione che finora non c’è stata. Così come non c’è stata la millantata contrapposizione tra ambiente e lavoro. L’unica contrapposizione reale è fra chi ha gestito in maniera scellerata e rivolta solo al proprio profitto l’azienda e il territorio e la popolazione che rivendica il diritto al lavoro, all’ambiente, alla salute e alla sicurezza.
Sono passati 8 mesi da quando è stata emessa l’ordinanza di sequestro di parte degli impianti e 5 dall’approvazione dell’Autorizzazione integrata ambientale, ma all’Ilva non è cambiato praticamente nulla. Si è continuato a produrre, anche in barba al divieto imposto per molti mesi; le scadenze per ottemperare alle prescrizioni dell’Aia (sulla cui adeguatezza ci sarebbe molto da discutere) hanno incominciato a slittare; sono stati eseguiti solo i lavori più elementari, come l’abbassamento dei cumuli dei minerali e il loro arretramento (peraltro di pochi metri); l’Altoforno n.1 è stato fermato ma non vi è traccia di lavori di rifacimento.
In questi mesi tanto le istituzioni amministrative e politiche quanto quelle sindacali hanno dimostrato tutta la loro inadeguatezza. Di fatto non è stata articolata alcuna alternativa credibile che non sia da libro dei sogni o la proposta di una nuova monocoltura (da quella navalmeccanica, coltivata fino alla metà  del ‘900, si è passati a quella siderurgica e oggi si vorrebbe legare il destino dell’economia tarantina ad un fosco progetto di rilancio dell’area portuale).
Non è possibile prospettare la chiusura dell’Ilva senza un’alternativa reale e senza averne valutato le ricadute sociali sul territorio e i rischi, anch’essi sociali oltreché ambientali, di un’inevitabile localizzazione della produzione altrove. Le prime sarebbero altissime in una città  e in un territorio già  così provati e investirebbero tanto i lavoratori dell’acciaieria e delle imprese appaltatrici quanto chi indirettamente vive da quei redditi. Per quel che concerne i rischi ambientali, invece, sarebbero solo spostati altrove, dove i lavoratori hanno ancora meno diritti dei nostri e possono essere pagati due soldi.
L’amministrazione, locale e nazionale, è evidentemente incapace di articolare un solo progetto, o semplicemente non interessata a farlo; i cittadini, le associazioni, i movimenti sono soli nella battaglia per un lavoro e una vita dignitosa. Il pericolo che si correrebbe in una situazione simile sarebbe quello che abbiamo visto realizzarsi in tante parti d’Italia, dove alla chiusura dei siti industriali inquinati e inquinanti non ha fatto seguito alcuna bonifica, per non parlare del rilancio dell’economia.
L’alternativa alla chiusura dell’Ilva o al mantenimento di una situazione insostenibile qual è oggi è l’«ambientalizzazione» della fabbrica attraverso la trasformazione del processo di produzione dell’acciaio con la riduzione diretta del minerale di ferro o, meglio ancora, la riduzione durante la fusione. Eliminando la filiera agglomerato-cokeria-altoforno, sostituita da un solo impianto, viene meno la quasi totalità  delle emissioni inquinanti. Non si tratterebbe quindi di tenerle sotto controllo, utilizzando tecnologie, come quelle previste dall’Aia, che hanno poi bisogno di continua manutenzione e aggiornamento (e chi vigilerebbe sulla loro attuazione?); semplicemente non esisterebbero più perché non esisterebbero più le fonti delle emissioni.
Alla trasformazione tecnologica deve accompagnarsi la riduzione della capacità  produttiva (10 milioni di tonnellate annue non sono sostenibili e neppure gli 8 previsti dall’Aia, limite peraltro temporaneo) e la bonifica del territorio, inteso come aree urbane ma anche come terreni da restituire all’agricoltura di qualità . Oggi esiste un divieto di pascolo nel raggio di 20 km dall’acciaieria ma l’area su cui fu costruita l’Ilva era considerata di alto pregio per le coltivazioni .
Per contrastare la monocoltura dell’acciaio è necessario diversificare le attività  produttive, fra cui bisognerebbe considerare anche l’archeologia. Taranto possiede un patrimonio enorme, nascosto sotto il manto stradale come nei magazzini del suo museo archeologico nazionale (accessibile solo in parte perché in restauro da tempo immemore). Nei dintorni della città  c’è ancora tanto da portare alla luce che oggi resta lì, quasi abbandonato a se stesso.
Ultima, ma non per ordine di importanza, la riqualificazione urbana con progetti di mobilità  sostenibile; il restauro e la riapertura di spazi ed edifici di proprietà  pubblica; lo sviluppo di attività  culturali: tutto questo creerebbe nuove opportunità  di lavoro. Non un unico contenitore, come finora è stato, ma piccole realtà  che concorrerebbero a far rinascere l’economia e riqualificare la città  e il territorio.
Bisognerebbe avere il coraggio di prendere in mano la situazione attuale, e rovesciarla; avere il coraggio di investire. Invece è molto più semplice scaricare sulla popolazione la responsabilità  della scelta.


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