Il pericolo è l’autodistruzione

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E non importa se il nuovo presidente della Repubblica non sia stato ancora eletto né se le urne non siano state ancora convocate. Ogni singola decisione che in questa fase viene assunta, infatti, favorisce o penalizza gli obiettivi dell’uno o dell’altro. La tattica del segretario e quella del sindaco non possono che essere divaricate.
Bersani coltiva ancora l’idea di poter approdare a Palazzo Chigi facendo valere la forza di numeri: la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato. E si muove cercando di assecondare un passo alla volta il suo disegno. Nel suo partito sta crescendo il numero di persone che lo accusa di voler agevolare la nomina di un capo dello Stato che possa condividere le sue aspirazioni governative. Il dubbio di molti di loro si concentra su un sospetto ben preciso: la volontà  di ricevere l’incarico pieno di formare l’esecutivo anche a rischio di non conquistare la fiducia in Parlamento.
Secondo una buona parte del Pd, quel passaggio costituirebbe formalmente una sconfitta e potrebbe essere la premessa per reclamare una seconda chance per la premiership. Il segretario, in sostanza, farebbe valere il suo ruolo di presidente del Consiglio dimissionario per condurre la nuova campagna elettorale. E cogliere forse l’ultima occasione – per una questione generazionale – di portare un ex comunista alla guida di un governo.
Le mosse di Renzi si muovono in senso diamentralmente opposto. Il sindaco fiorentino vuole accelerare per andare a votare il prima possibile. Sicuro di potere essere il nuovo sfidante di Silvio Berlusconi. Convinto di poter sconfiggere l’avversario storico del centrosinistra nella fase declinante della sua parabola politica e di poter approfittare della oggettiva contrazione dei consensi a favore del Movimento 5Stelle. Anche perché i grillini hanno mostrato limiti consistenti nel personale politico approdato in Parlamento e nella capacità  di elaborare una linea politica non solo produttiva per il Paese ma semplicemente condivisa dagli oltre 150 deputati e senatori eletti. Per questo, Renzi è pronto anche a spaccare il suo partito pur di ritrovarsi al Quirinale un uomo che – a suo dire – non si faccia condizionare dall’attuale vertice dei democratici. Un “garante” non solo delle Istituzioni e del Paese, ma anche della contesa in corso nel Pd. Il suo cannone puntato contro Marini e contro la Finocchiaro rappresenta la prima mossa di una campagna elettorale già  avviata e che per lui non può che avere come caposaldo il rinnovamento della politica. O più semplicemente la “rottamazione” della precedente classe dirigente. Il primo tassello, dunque, di una “corsa” in cui i nemici sono due: il Cavaliere e l’antipolitica di Beppe Grillo.
Ma il punto è proprio questo: la “guerra democratica” contiene al suo interno un rischio che entrambi sembrano sottovalutare. Ossia la distruzione dello stesso centrosinistra. E anche la fiches giocata in questi giorni da Fabrizio Barca sembra in primo luogo
il modo, per il gruppo che più si sente legato alle radici dell’ex Pci, di fermare l’avanzare del sindaco di Firenze. Bersani e Renzi non si parlano, sempre più pronti a guardarsi come nemici. Un errore. Nemmeno la Dc delle molteplici correnti ha mai anteposto lo scontro personale alle sorti del partito. Ieri il “rottamatore” si è sfogato con alcuni esponenti del Pd dichiarandosi pronto a fare un definitivo passo indietro: «Se volete Barca, se pensate che lui possa battere Berlusconi io mi faccio da parte in buon ordine. Ma mi sono stancato di essere trattato come un appestato». Ovviamente si tratta solo di un modo per tenere alta l’asticella della trattativa. Ma lo strappo tra Bersani e Renzi con il passare del tempo sembra sempre più dilatato e quasi incomponibile. Si avvicinano alla battaglia finale – che comunque nel giro di un anno ci sarà  – esponendo il lato più debole del centrosinistra. Quello che potrebbe restituire a Berlusconi la settima chance di vincere le elezioni.


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LA VERGINITà€ DELLA LEGA

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   SE L’ASTUTO Di Pietro cerca spazio mascherandosi da improbabile succedaneo dell’anticapitalismo indignado, mentre il trio Ferrara-Feltri-Sallusti strattona il suo Oligarca di riferimento affinché guidi un’improbabile rivolta contro la tecnocrazia europea, tocca invece alla Lega vivere il risveglio più amaro. Contro il governo Monti «ci rifacciamo la verginità », è scappato detto a Umberto Bossi. Una metafora che si presta a fin troppo facili controdeduzioni.

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