Il secondo tempo di Pierluigi

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UN PASSAGGIO decisivo anche per l’esecutivo del futuro e che «il Pd giocherà  da azionista di maggioranza », dicono a Largo del Nazareno, cercando di piegarla a favore del «governo del cambiamento », ossia del progetto del segretario. La trattativa ora si sposta su un altro tavolo. E i tempi per il voto sul Quirinale cominciano a essere stretti, lo stallo impone un’accelerazione. Il presidente della Camera Laura Boldrini, d’intesa con la presidenza del Senato, convocherà  il Parlamento in seduta congiunta per la prima votazione giovedì 18 aprile.
La strategia nasce dall’attuale inquilino del Colle Giorgio Napolitano. Le procedure per l’elezione del nuovo presidente partono il 15 aprile. Di solito, il voto dei grandi elettori subisce qualche slittamento per i ritardi nell’indicazione dei delegati regionali. Stavolta non sarà  così, la situazione non consente rinvii. Già  la scorsa settimana il segretario generale della presidenza della Repubblica Donato Marra ha sondato le assemblee regionali per avere garanzie sui loro delegati. Il problema del Friuli, che va alle urne il 21 giugno, è superato: sarà  il vecchio consiglio a eleggere i suoi rappresentanti. Dopo questo giro, Marra ha avvertito Boldrini e Grasso. Tocca alla prima convocare le Camere visto che gli elettori si riuniscono in seduta congiunta a Montecitorio. Marra ha spiegato che Napolitano vuole fare presto e non appena sarà  eletto il nuovo capo dello Stato, il presidente uscente lascerà  il Quirinale. Sarà  un cambio della guardia rapidissimo, non si arriverà  alla scadenza naturale del settennato che è il 15 maggio. Si chiamano “dimissioni di cortesia”: non lasciano appeso il nuovo presidente ed evitano all’ex una scomoda coabitazione.
Su queste basi e con questo calendario, Bersani inizia il rush finale intrecciando Quirinale e il suo destino da premier. Lo fa aprendo alle larghe intese, a un incontro con Silvio Berlusconi «nelle sedi istituzionali», che ha accuratamente evitato durante le consultazioni. Ma soltanto per il nome da mandare al Colle e in cambio di un’adesione del Pdl al suo progetto: una Costituente con tutti dentro per varare le riforme e un esecutivo che si appoggia sulle astensioni, cioè un governo di minoranza che avvii la legislatura. I due cerchi. O il doppio binario.
Sul piatto il Pd è disposto a mettere in gioco le cariche istituzionali. Il nuovo capo dello Stato lo sceglierebbe il centrosinistra in una rosa di nomi non sgraditi al centrodestra. In questo caso i favoriti sono Giuliano Amato, Franco Marini e Massimo D’Alema. E se il Pdl grida comunque all’occupazione militare delle poltrone istituzionali?
A Largo del Nazareno sono convinti di avere una soluzione, anche scompaginando gli assetti attuali. In cambio della garanzia sul governo, infatti, Pietro Grasso potrebbe finire nell’esecutivo alla casella ministro della Giustizia. Liberando così la poltrona di Palazzo Madama, mettendola a disposizione dell’intesa “costituente” con Berlusconi.
La vera arma finale contro le resistenze del Cavaliere sono i numeri per eleggere il presidente della Repubblica. Il Pd avrà , il 18 aprile, circa 490 grandi elettori sul quorum della maggioranza assoluta (505) che scatta dalla quarta votazione. È sufficiente un patto con Mario Monti per scegliere in solitudine, escludendo il Pdl, il
dominus della politica italiana per i prossimi sette anni. E potrebbe salire al Colle una personalità  che avrebbe il potere di sciogliere le Camere o di mandare il governo Bersani in Parlamento a cercarsi la fiducia anche senza numeri certi. È un rischio che Berlusconi si può permettere? Nel caso di una decisione “solitaria”, i candidati Romano Prodi o Stefano Rodotà  (gradito ai 5stelle) avrebbero la pole position e rappresentano un incubo per l’uomo di Arcore atteso da parecchie scadenze
giudiziarie.
Da segretario del Pd con pieni poteri, Bersani cerca la via per affermare la sua proposta di governo attraverso l’elezione del presidente della Repubblica. Aprendo alle larghe intese per il Quirinale, il segretario pensa di aver “congelato” anche il dibattito interno al Pd. La direzione slitta e nei prossimi 15 giorni sarà  lui a condurre il gioco. Matteo Renzi però non sta a guardare. Tra una riunione del patto di sindacato dell’aeroporto di Firenze e una visita istituzionale, il sindaco ha seguito la conferenza stampa del segretario. «Pierluigi si è preso altre due settimane. E ancora non abbiamo capito se è per la larghe intese o per il voto», è stato il velenoso commento espresso parlando con i suoi fedelissimi. Renzi è nervoso, non condivide la strategia di Bersani «che ha un senso solo se punta alla riforma della legge elettorale. Se fosse così me ne starei bonino perché l’interesse del Paese viene prima di tutto. Ma non so se è questo l’obiettivo ». Dopo un silenzio di alcuni giorni, è tornato a parlare pubblicamente battendo sul tasto che fa più male a Bersani: il finanziamento pubblico. Sul suo sito, Renzi ha pubblicato l’elenco dei sostenitori della Fondazione Big Bang chiosando: «Si può fare politica anche senza soldi dello Stato». A Montecitorio i renziani sono ancora più espliciti. «Se Bersani pensa di scegliersi il capo dello Stato per avere un incarico purchessia, questa non è la nostra posizione ». E pesano non poco i 51 parlamentari scelti dal sindaco di Firenze, in una partita in cui i franchi tiratori hanno sempre fatto e disfatto trame apparentemente perfette.
Le prossime settimane sono dunque decisive anche per la tenuta del Partito democratico. Come nella Prima repubblica, la solidità  delle forze politiche viene messa alla prova quando si vota il capo dello Stato.


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