Strage nel boom del tessile

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Nella capitale del Bangladesh, attraversata dal dramma del crollo di un palazzo che sembra un terremoto e che ha ucciso almeno duecento persone, le strade si riempiono di gente che una giornata di lutto nazionale non riesce a tenere a casa. Sono alcune migliaia di lavoratori del tessile che testimoniano la rabbia per i colleghi periti nel crollo. Le parole d’ordine sono infuocate, riferisce il corrispondente di Al Jazeera: «Vogliamo la pena di morte per i proprietari delle fabbriche». Situazione tesa. A poco serve la notizia che, nel tardo pomeriggio di ieri, fa salire il bilancio di chi è sopravvissuto al crollo di mercoledi: quaranta persone vengono trovate ancora vive in una bolla d’aria e di spazio tra pareti di cemento armato.
La rabbia esplode contro il palazzo del Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association ma fortunatamente la protesta non genera altre vittime in un Paese dove la piazza si trasforma spesso in un cimitero. Il cimitero però questa volta è stato il palazzo Rana Plaza nel distretto periferico di Savar. È praticamente imploso e si è accartocciato spezzandosi in mille pezzi. Una storia molto asiatica ma che in realtà  ci riguarda da vicino. Quella gente lavorava anche per noi europei. Anche per società  italiane.
Il crollo del palazzo avviene mercoledi anche se il giorno precedente ci sono segnali preoccupanti nel grande alveare che ospita, come altrove in città , fabbrichette tessili dove, stipata in stanzucce, si guadagna il pane una forza lavoro sottopagata e, come si vede, assai poco tutelata. Almeno duemila persone si trovavano nell’edifico alla periferia della capitale al momento del crollo. Molti tra loro, vedendo una serie di crepe preoccupanti appena prodottesi nel grande edificio, avevano esitato a entrarvi. Poi i proprietari delle fabbriche avevano dato garanzie. Ma il palazzo è crollato e centinaia di persone sono rimaste intrappolate. Almeno mille sono rimaste ferite. Non si sa in quanti ancora si potranno salvare, quanti esattamente sotto le macerie. La stima di duecento trenta vittime potrebbe essere per difetto.
Il governo realizza che la rabbia va ben otre la tragedia in sé. Sotto accusa c’è un sistema di produzione e il motivo per cui delocalizzare fa fare profitti. Nessun operaio svedese, italiano, americano avrebbe messo piede in un palazzo con crepe vistose apertesi appena il giorno prima. 
In Bangladesh invece non è così. Il ministro degli Interni Muhiuddin Khan Alamgir, dice adesso che l’edifico violava le norme di costruzione e che i responsabili saranno punti. E la polizia di Dacca e la Capital Development Authority, l’autorità  governativa di gestione della capitale, hanno aperto due inchieste separate. La stalla chiusa quando i buoi sono scappati. Appena qualche mese fa oltre cento persone erano state uccise da un incendio scoppiato in una fabbrica di indumenti. Il prezzo del boom tessile nel Paese asiatico.
I responsabili sono comunque facili da trovare. Morali e materiali. C’è chi ha costruito il palazzo e chi ha affittato o venduto i locali del Rana Plaza. E, ancora, ci sono i nomi delle fabbriche, tra queste la New Wave Bottoms/Bangladesh. Un nome dietro cui stanno i committenti delle tessiture, cuciture, imbastiture. Sul suo sito la Nwbd sostiene ad esempio di lavorare per marchi famosi, dall’Italia (almeno quattro tra cui Benetton) alla Spagna, dalla Gran Bretagna agli Stati uniti. Ma adesso il sito è chiuso. Collassato anche lui.
Resta la «copia cache», come un cumulo di macerie. (http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:http://newwavebd.com/buyers.html )


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