I ragazzi di Torino che rifecero l’Italia Da Bobbio a Eco

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È una Torino sparita, quella che viene raccontata e che racconta la storia dei Ragazzi di via Po. È sparita la Torino dura e viva degli Anni Cinquanta e Sessanta, dove si costruiva la modernità  italiana: la tecnologia, il design, la pubblicità , la comunicazione, la cultura, l’arte povera; e tutto, il Politecnico, gli atelier di Pininfarina e Giugiaro, lo studio Testa, «La Stampa», l’Einaudi, il Partito comunista, la Juventus, l’università , le sperimentazioni artistiche, tutto era in qualche modo legato — per affinità  o per contrapposizione — alla grande fabbrica, alla Fiat, a Mirafiori, la città  dell’Apocalisse, dritta e squadrata, dove lavoravano quasi 60 mila uomini, quasi tutti operai. Ed è sparita anche la Torino sfiduciata e frustrata di fine secolo, quella in cui cominciai a raccogliere le testimonianze da cui il libro è nato. Una città  impaurita dal declino industriale, timorosa del futuro, depressa e di cattivo umore, ma consapevole di sé e dei propri meriti, ancora animata da intellettuali che avevano qualcosa da insegnare al resto del Paese.
C’era ancora Norberto Bobbio. In un’epoca di finti buoni, lui era un finto burbero. Molto generoso e molto meticoloso, mi dava appuntamento in via Sacchi o nella sua casa a Pino, un nido d’aquila affacciato sulla città , per raccontarmi la cultura torinese del dopoguerra e per verificare il lavoro che avevo fatto; come un professore con lo studente che scrive la tesi. Quando trovava un errore, lo prendeva come un affronto personale. Non so per quale disgraziato motivo, avevo scritto Epicarmio Corbino anziché Epicarmo. Bobbio partì con un lungo rimbrotto incentrato sulla superficialità  del lavoro giornalistico e l’inaffidabilità  dei lavori di ricerca storica basati soprattutto sui racconti orali. Io ascoltavo in silenzio. Poi lui concludeva con una nota positiva, mormorata in un borbottio appena intellegibile, il cui senso era: andiamo avanti a lavorare.
C’era ancora Carlo Fruttero. Viveva sopra i portici di fronte alla stazione di porta Susa, in una casa arredata come negli anni Cinquanta. Le sue rughe si mimetizzavano con quelle del cuoio della poltrona, su cui sedeva a fumare Gauloises e a raccontare di quando faceva il giostraio nelle Fiandre, girava per Parigi in triciclo a consegnare sidro, partiva a piedi per Roma con i pellegrini dell’Anno Santo, insomma poneva le premesse della sua esistenza di torinese eccentrico. C’era ancora Edgardo Sogno, che non ne poteva più di passare per fragile vittima e stava per confidare che il «golpe bianco» voleva farlo davvero.
C’erano ancora l’Avvocato e Umberto Agnelli, che fu generoso di dettagli sul passaggio di stagione, a metà  degli anni Sessanta, quando la famiglia rivendico per sé la gestione della Fiat a lungo affidata a Valletta. C’era ancora Alessandro Galante Garrone, che Valletta l’avrebbe volentieri epurato. C’era ancora Giorgio Bocca, che amava Torino e ne raccontava con frasi secche come spari. C’erano ancora Felice Andreasi e il suo humour timido, Raf Vallone, che prima di diventare attore aveva giocato nel Torino ed era stato capo della terza pagina dell’«Unità », Giulio Bollati, cui restavano tre mesi di vita.
La Torino di oggi è molto cambiata. Non è mai stata così bella. Vi si vive meglio che vent’anni fa e ovviamente molto meglio che negli anni della ricostruzione — quando si fronteggiavano ancora le durezze della guerra —, del boom — quando la città  dovette affrontare l’arrivo di quasi mezzo milione di immigrati — e del terrorismo, quando si contavano i feriti e i morti. La Torino di oggi assomiglia a quella di Gozzano: «Città  favorevole ai piaceri». I palazzi del centro storico ridipinti, i caffè storici restaurati. Nuovi musei, stadi, mostre, fondazioni di arte contemporanea. Anche Torino conosce la grande crisi che scuote l’Occidente, ma è attrezzata per fronteggiarla, il terziario continua a crescere, così come il turismo. La Fiat che pareva fallita si è salvata, è ormai una multinazionale con un piede a Detroit e uno qui. C’è una cultura giovanile ricca di fermenti, ci sono storie imprenditoriali di successo. Ma la città  non ha più il peso demografico e politico che ha avuto nel Novecento. E si è ritrovata sotto attacco dal punto di vista storico e culturale.
Tutto quanto Torino ha fatto e ha dato all’Italia è finito sotto accusa. Il Risorgimento è stato derubricato da libri di grande successo (e dal tam tam della Rete) a guerra di conquista coloniale. La Resistenza è stata rappresentata come una sequela di crimini o comunque come una cosa da comunisti. La storia della Fiat è stata deformata in modo grottesco (e come corollario si è condotta un’operazione analoga con la storia della Juventus, molto al di là  delle ombre dell’era Moggi, che sarebbe puerile negare). L’Avvocato Agnelli è stato bersaglio di una polemica postuma vergognosa.
Anche Norberto Bobbio e gli azionisti sono stati sbeffeggiati come fastidiosi soloni con gli armadi pieni di scheletri e la petulante pretesa di ammaestrare gli italiani: la ormai celebre lettera al Duce, di cui il professore si vergognò per tutta la vita, ha oscurato la vicenda di un gruppo piccolo ma prezioso di resistenti che conobbero il confino, il carcere, talora la morte.
Negli anni della ricostruzione, si affacciano sulla scena i protagonisti della seconda parte del libro: i ragazzi di via Po, appunto. Studenti universitari cresciuti all’ombra della grande scuola letteraria e filosofica — Abbagnano, Pareyson, Geymonat, Chiodi, Guzzo, Rossi, Viano e appunto Bobbio — di Palazzo Campana, attivi nel mondo cattolico, ma destinati a spostarsi a sinistra. Tre di loro, Umberto Eco, Furio Colombo e Gianni Vattimo, entrano per concorso nella Rai appena nata, negli stessi anni in cui Claudio Magris arriva a Torino da Trieste per l’università . La storia della loro formazione mi pare ancora oggi significativa. Anche perché non comincia da famiglie illustri: il padre di Eco ha un negozio di ferramenta ad Alessandria; quello di Furio Colombo è l’impiegato di una piccola casa editrice; Vattimo è figlio di un poliziotto calabrese e di una sarta. Tutti sono figli di Torino, una città  che sapeva soffrire e sapeva sorridere, in cui il sacrificio e il talento contavano più dei privilegi familiari e delle relazioni personali, in cui le élite esistevano, però venivano definite non dalla nascita ma dal merito. E sono figli di una stagione in cui si aveva infinitamente meno di adesso, ma si andava verso il più. In cui si aveva fiducia nel futuro e in se stessi, si credeva nella propria città  e nel proprio Paese.


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