LA PRIMAVERA DELLO SCONTENTO

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Se alle politiche di febbraio lo tsunami grillino aveva spazzato via i «vecchi» partiti, stavolta la vera onda anomala è quella del non voto, che non è più protesta «creativa», cioè ricerca del candidato o della lista che rompono tutti gli schemi. È invece rinuncia preventiva, cioè scelta di chi non vuole più scegliere.
Perché lo considera inutile, e perché sente che la democrazia è ormai solo procedura di palazzo, e non più «cura» della polis. Se la democrazia rappresentativa non mi rappresenta perché non risolve i problemi della mia vita quotidiana, il mio voto non serve. Bisogna guardare innanzitutto dentro questo drammatico abisso che divide politica e società , per non caricare il voto di significati troppo «paradigmatici ». Ma al fondo dell’abisso, un bilancio parziale è comunque possibile. La clamorosa risacca che prosciuga ovunque il Movimento 5 Stelle lascia sul terreno l’esito più imprevedibile: un Pd che non molla e un Pdl che tracolla.
Adispetto dei sondaggi che a livello nazionale fotografano una ritirata del Partito democratico e un’avanzata del Popolo della Libertà , il voto delle città  riflette l’esatto contrario. Il centrosinistra a Roma ipoteca il Campidoglio. Su 16 comuni capoluogo ne conquista 5 al primo turno, confermandosi in testa in altri 10. È un sorpasso in retromarcia, perché avviene nel clima di sfiducia e disincanto di cui abbiamo detto. Ma resta un risultato piuttosto sorprendente: dimostra che forse non tutto è perduto, e che il partito, con le sue strutture logore e con i suoi leader ammaccati, un barlume di radicamento sul territorio ancora ce l’ha. La soddisfazione di Epifani è dunque comprensibile. Tuttavia, anche qui conviene non farsi troppe illusioni.
Il vantaggio di Marino nella Capitale è ampio e difficile da colmare. Ma il ballottaggio è sempre un’altra partita, come può testimoniare Rutelli che la perse rovinosamente cinque anni fa. E l’ex chirurgo si afferma per ora grazie a una strana alchimia, difficilmente ripetibile su scala nazionale. Un misto di «oltrismo» e di «nuovismo»: non a caso il suo slogan era «Non è politica, è Roma». Una miscela di radicalità  e di alterità  rispetto allo stesso Pd: non a caso lui stesso non ha votato per il governo Letta e a questo primo turno lo ha sospinto soprattutto il voto di Sel. La formula Marino non è facilmente esportabile, in un partito che invece guarda ormai a Matteo Renzi, fautore e simbolo dello «sfondamento al centro», come il candidato premier predestinato. Dunque serve cautela. Per i prossimi quindici giorni e anche per i prossimi quindici mesi, quando si dovrà  celebrare un congresso che si vuole, giustamente, fondativo di un nuovo centrosinistra, capace di ibridare in un’identità  finalmente risolta quell’«amalgama mal riuscito» che è stato il Pd in questi anni.
Il centrodestra subisce una batosta pesante, e altrettanto inaspettata. A Roma paga l’impresentabilità  di Alemanno, il peggior sindaco degli ultimi 50 anni, travolto dal nulla che ha rappresentato, sul piano amministrativo e su quello culturale. Non sono bastate le assunzioni clientelari di famigli ed ex picchiatori fascisti all’Atac e all’Ama. Hanno pesato le bugie propagandistiche sul calo delle tasse (tra Imu e addizionale Irpef Roma è la città  dove se ne pagano di più) e gli scandali del suo sottobosco (in testa il suo braccio destro Mancini). Risultato: se il Pdl perde anche Roma, non amministra più nessuna grande città . Un trauma per la destra capitolina, ma anche per la leadership berlusconiana. Il Cavaliere si illude di tenere ancora assieme, sotto la sua sovranità  carismatica, le ultime schegge impazzite dell’ex Msi e i residui avamposti prealpini della Lega. Questo voto amministrativo non lo premia, da nessun punto di vista. Il Popolo delle Libertà  perde quasi ovunque al Nord, da Sondrio a Vicenza, da Treviso a Imperia. E il Carroccio scompare in Veneto, cioè nel cuore della prima epifania padana di trent’anni fa.
Resta da spiegare l’eclissi totale delle Cinque Stelle. Un non-partito che solo tre mesi fa ha sfondato le porte del Palazzo d’Inverno, sull’onda di una forza d’urto che giustamente non abbiamo solo definito «anti-politica», ma anche «altra-politica ». Ebbene, com’è accaduto in Grecia alla destra neo-fascista di Alba Dorata e alla sinistra estremista di Syriza, anche il Movimento di Grillo e Casaleggio ha subito l’enorme riflusso di chi l’aveva scelto per «dare un segnale», e ora è rimasto deluso. M5S non va al ballottaggio in nessun comune capoluogo, e nel complesso del voto amministrativo perde tra la metà  e i due terzi dei consensi che aveva ottenuto nel voto politico. Piaccia o no al conducator genovese e al suo guru, è il segno che in questi tre mesi è mancata proprio quell’«altra politica» che gli elettori si aspettavano dal movimento. E invece è stato il vuoto, riempito solo dagli sfondoni di forma e di sostanza dei capigruppo e da un dibattito surreale e autoreferenziale sulle diarie e gli scontrini degli «onorevoli- cittadini».
Per una crudele legge del contrappasso, anche le 5 Stelle, appena entrate nel Palazzo e dunque cooptate dal Sistema, agli occhi dell’opinione pubblica sono diventate una banalissima e irrilevante «parte degli arredi». E’ la conferma di quello che l’ex comico non vuole accettare: non solo la sana dialettica interna, ma soprattutto il buon uso di un tesoretto elettorale che non serve a nulla se non viene speso e investito sul mercato politico. Se oltre centocinquanta deputati e senatori non producono politica, cioè proposte e leggi utili alla collettività , la «missione» palingenetica del grillismo perde totalmente di significato. Cade l’assioma sul quale si regge il futuro regno di Gaia: «uno vale uno». Non è più vero. Se il Movimento non cambia, e se non ricostruisce sul disastro in Friuli, in Val d’Aosta e ora nei comuni capoluogo, «uno vale zero». E dunque non vale neanche la pena votarlo.
La domanda cruciale che tutti si fanno, adesso, è come questo risultato incida sul governo Letta. Se il voto di Roma, soprattutto, rafforzi o meno la Grande Coalizione. L’impressione – com’è già  accaduto per l’Imu e per lo ius soli, per la riforma elettorale e per quella sul finanziamento pubblico, per la sentenza Mediaset e per il processo Ruby – è che anche questa contesa elettorale contribuirà  a far fibrillare la stranissima maggioranza. La sensazione – come dimostra la percentuale stratosferica dell’astensionismo – è che in generale le Larghe Intese, per quanto necessarie o necessitate, non riscaldino i cuori della gente. Lo conferma un’evidenza, in questo momento davvero paradossale: mentre governano insieme a livello nazionale, saranno proprio il centrosinistra e il centrodestra a sfidarsi nei ballottaggi a livello locale. L’uno contro l’altro, e irriducibilmente diversi. Com’è giusto che sia, in una sana democrazia dell’alternanza.


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