Le ipotesi sulle bombe in Turchia

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Domenica 12 maggio le autorità  turche hanno arrestato nove persone, tutti cittadini turchi, con l’accusa di essere responsabili dell’esplosione di due autobombe nella città  di Reyhanli – nella provincia di Hatay, vicino al confine con la Siria – che il giorno precedente avevano causato la morte di 46 persone e il ferimento di altre 100. Il governo turco ha accusato i nove arrestati di essere appoggiati dai servizi segreti siriani, che rispondono direttamente al presidente Bashar al Assad, e ha detto che l’attacco è stato compiuto come atto di ritorsione per l’ampio appoggio che la Turchia sta fornendo ai ribelli dall’inizio della guerra civile in Siria.

Il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, ha invitato la popolazione turca alla calma, dicendo che il suo paese non si sarebbe fatto trascinare dentro la guerra siriana. Erdogan ha però lasciato aperte delle possibilità  per una futura rappresaglia: «Coloro che prendono di mira la Turchia dovranno renderne conto prima o poi. I grandi stati sono quelli che reagiscono in maniera forte, ma con il giusto tempismo». Di fronte alle accuse turche, il ministro dell’Informazione siriano, Omran al-Zoubi, ha negato le accuse di Erdogan, sostenendo che era stato il governo di Ankara a volere destabilizzare la zona di Reyhanli per usarla come corridoio di passaggio per gli aiuti e le armi che finiscono nelle mani dei ribelli siriani.

Dall’inizio della guerra civile in Siria, la Turchia è stata tra i primi stati della regione a schierarsi contro il regime di Assad e a favore dei ribelli. Fino a oggi, tuttavia, Erdogan si è limitato a fornire appoggio ai ribelli, senza approvare un intervento militare in Siria: secondo molti uno dei motivi della riluttanza di Erdogan sarebbe di evitare la diffusione di scontri tra diverse fazioni etniche e religiose nella regione sud del paese.

La situazione a Reyhanli, dove si è verificato l’attentato, è tra le più delicate della regione: la città  è il punto di entrata di migliaia di rifugiati siriani che negli ultimi due anni hanno attraversato il confine per sfuggire dalla guerra in Siria. La città  è abitata soprattutto da membri di una comunità  di musulmani sciiti, che tradizionalmente sono vicini all’etnia alauita del presidente siriano Assad: l’arrivo dei molti profughi siriani, di etnia per lo più sunnita, è stato all’origine di alcuni scontri con i residenti di Reyhanli. Domenica centinaia di persone hanno manifestato ad Antakya, città  vicino a Reyhanli, per protestare contro la decisione del governo turco di continuare ad appoggiare i ribelli siriani.

Il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha diffuso ulteriori dettagli sull’identità  dei nove arrestati, che sarebbero legati a un gruppo terrorista di ideologia marxista che si fa chiamare “Acilciler”. Sabah, un giornale turco vicino al governo, ha riportato domenica che le autorità  del paese sospettano che il leader di questo gruppo, Mirhac Ural, possa essersi stabilito in Siria e che abbia ordinato l’attacco. “Acilciler” era uno dei molti gruppi marxisti attivi in Turchia durante gli anni Settanta e Ottanta, sospettato di essere stato ideato e formato dall’intelligence siriana. Molti dei suoi militanti, secondo il governo turco, apparterrebbero a una setta legata agli alauiti siriani, il gruppo di cui fa parte anche tutta la famiglia di Assad. Secondo Davutoglu, “Acilciler” sarebbe lo stesso gruppo responsabile del massacro nella città  siriana di Banias di una settimana fa, che aveva causato la morte di almeno 62 persone.

Nonostante le dichiarazioni di Erdogan e Davutoglu, alcuni osservatori – tra cui Guven Sak, direttore dell’Economic Policy Research Foundation of Turkey – credono che i richiami all’unità  nazionale potrebbero avere anche un altro obiettivo, oltre a quello di non farsi coinvolgere nella guerra in Siria: scacciare qualsiasi sospetto che gli attentati siano stati compiuti dal PKK, movimento separatista curdo che negli ultimi tre anni ha rivendicato l’uccisione di decine di migliaia di persone. Il governo turco, infatti, ha da poco raggiunto una tregua con il leader storico del PKK, Abdullah Ocalan, che prevede tra le altre cose l’allontanamento dei combattenti del movimento dalla Turchia verso la regione del Kurdistan Iracheno. Se la responsabilità  degli attentati dovesse essere attribuita al PKK, il rischio sarebbe quello di indebolire lo storico accordo di pace, e dover tornare a negoziare di nuovo le condizioni della tregua.

foto: Uno degli edifici danneggiati per le esplosioni a Reyhanli, in Turchia (AP Photo)


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