Viaggio ai confini del Califfato dove l’Isis è in ritirata

Viaggio ai confini del Califfato dove l’Isis è in ritirata

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KOBANE (Siria). Qui donne soldato in uniforme, donne comandanti che parlano da superiori agli uomini, impartiscono ordini come qualsiasi ufficiale al mondo. E nella stessa regione, solo un pugno di chilometri più a sud, ecco il regno del Califfato
Ecco il Califfato, con gli orrori delle schiave del sesso, il velo obbligatorio, le flagellazioni e lapidazioni per le adultere, la legge coranica interpretata secondo le declinazioni del più rigoroso oscurantismo medioevale.
È l’incontro con una delle donne responsabili delle milizie curde all’offensiva contro Raqqa, la roccaforte di Isis in Siria, che spinge a queste considerazioni. «Posso confermare che Barack Obama ha detto il vero nel suo ultimo discorso: l’Isis è in difficoltà, non solo in Iraq, ma soprattutto sul fronte siriano. Senza dubbio non è sconfitto. Gode ancora di sostegni e risorse. Però sono ormai diverse settimane che ha cessato di lanciare offensive. Per la prima volta l’Isis è costretto a difendersi, sta perdendo terreno», dice con fare deciso la 34enne Ranghin Renas, donna comandante dello Ypg (dall’acronimo curdo che sta per «Unità (maschile) di Protezione Popolare») con ai suoi ordini anche le corrispettive unità femminili (Ypj).
L’abbiamo incontrata ieri pomeriggio in una delle caserme che costellano le rovine di Kobane. Poca luce alle finestre, stanze fredde, l’elettricità a singhiozzo. Fuori un panorama di macerie, fango e le devastazioni delle battaglie di un anno fa. Davanti a una carta geografica la comandante Ranghin punta ai recenti successi dello Ypg, garantiti, sottolinea, «dal sostegno aereo dalla coalizione guidata dagli americani e dagli aiuti internazionali». Seguiamo il suo dito sulla mappa: «Dal fronte di Qamishli negli ultimi tempi siamo riusciti a prendere la città di Hasakeh. Qui l’Isis si è ritirato di oltre 100 chilometri. Ormai noi controlliamo le maggiori vie di comunicazione dalla Siria con l’Iraq e la città di Mosul. I terroristi dell’Isis sono costretti a utilizzare le piste nel deserto da Deir Ez Zor. E adesso stiamo puntando a Raqqa nella zona di Janub Raddah, le nostre avanguardie sono posizionate a soli 60 chilometri dalla capitale del Califfato. Loro si difendono minando le strade, utilizzando attentatori suicidi. Nulla a che vedere con l’impeto delle loro offensive dell’anno scorso».
Parole confermate dal nostro viaggio nel cuore della regione autonoma curda di Siria. «Rojawa», tramonto in curdo, per distinguerla da «Rojelat», la terra ad est dove sorge il sole, il Kurdistan iraniano: due nomi che sintetizzano l’antico sogno curdo di un grande Stato unitario a cavallo tra Iraq, Turchia, Siria e Iran, ma spesso reso vano dalle loro insormontabili divisioni interne. Rojawa, creata quasi tre anni fa in seguito al caos della guerra seguita alle rivolte del 2011, appare oggi come una rassicurante, ma fragilissima, isola laica nel mare del Medio Oriente in balia del fondamentalismo religioso, ispirata al socialismo di «Apo», il mitico Abdullah Ocalan, leader (turco) del grande partito dei lavoratori curdo in carcere in Turchia. Non c’è posto di blocco che non abbia stampigliata l’immagine del suo volto sulle bandiere, assieme a quelle di decine di morti nelle battaglie degli ultimi tre anni. Un luogo carico di contraddizioni. «Siamo socialisti. La religione è un fatto personale. Non vogliamo uno Stato confessionale. Crediamo nella massima eguaglianza dei sessi e nella democrazia. Ma oggi siamo alleati degli americani, speriamo che anche l’Europa ci venga in aiuto, temiamo che i russi siano solo interessati a difendere la dittatura di Bashar Assad. Per noi i turchi sono pericolosi quasi quanto l’Isis. Ecco il motivo per cui consideriamo i curdi iracheni fratelli, ma non ci piace affatto il loro rapporto di stretta cooperazione con la Turchia di Erdogan», riassumono all’ufficio stampa dello Ypg nella cittadina di Amudah.
Visto che il confine con la Turchia è adesso praticamente chiuso, il passaggio più facile per raggiungere Kobane è dall’Iraq settentrionale in barca sul Tigri presso il villaggio di Fishkabur. Qui uno stretto nastro d’asfalto corre tra colline brulle puntellate da centinaia di vecchi pozzi ancora funzionanti per l’estrazione del petrolio. «Abbiamo poca acqua. Ma la benzina non ci manca», sostiene l’autista, protestando però che la raffinazione artigianale del greggio rovina i motori. In compenso costa nulla: un euro per 13 litri di benzina. I villaggi sono poveri, ma si trova tutto e la polizia controlla il traffico. La paura di infiltrazioni dell’Isis è cresciuta dopo il blitz del 25 luglio, quando un centinaio di jihadisti travestiti da combattenti delle milizie sunnite moderate e da curdi riuscirono a raggiungere Kobane, mettendo la città a ferro e fuoco. «Uccisero 261 persone, e i feriti furono oltre 300», ricordano all’ospedale. Da allora di notte i movimenti sono strettamente regolamentati e ogni nucleo urbano ha organizzato una fitta rete di posti di blocco. Il centro di Qamishli, l’aeroporto e il punto di passaggio con la Turchia restano sotto controllo del regime di Bashar Assad. Colpisce incontrare le bandiere con le tre stelle di Damasco nel cuore della provincia curda. «La nostra priorità al momento è battere l’Isis, con il regime faremo i conti più tardi. Se Bashar ordinasse alla sua aviazione di bombardarci qui sarebbe il caos. Grazie a questo modus vivendi restiamo invece una delle province più calme di tutto il Paese», spiega Joan Mirzo, giornalista locale.
Più avanti le rovine della guerra diventano molto più evidenti. Per lunghi tratti le barriere di fili spinati, le reti e i campi minati puntellati dalle torri di guardia e i nidi di mitragliatrici sovrastati dal simbolo della mezzaluna turca sono a poche centinaia di metri dalla strada. Nella regione della cittadina di Tell Abayad molti villaggi sino a un anno fa erano a maggioranza araba. Uno dei tanti territori di confine tra diverse comunità etniche e religiose del Medio Oriente, che nella storia sono stati il cuore di guerre e massacri. Un autista accenna a gravi e recenti episodi di discriminazioni e deportazioni da parte delle unità curde ai danni degli arabi, non molto diversi da quelli perpetrati dai sunniti e l’Isis contro i curdi. I segni del resto sono evidenti: interi villaggi vuoti, danneggiati da bombe e cannonate. Case, scuole, fattorie abbandonate e dovunque slogan sui muri inneggianti alla lotta di liberazione curda. Denunce contro le persecuzioni anti-arabe sono giunte di recente anche da Amnesty International. Ma i militanti dello Ypg negano con forza. «Non c’è stata alcuna pulizia etnica. Anzi, cerchiamo l’alleanza con le milizie sunnite determinate a battere l’Isis», replicano duri. A Kobane 70.000 persone, circa il 60 per cento degli abitanti originari, sono tornate alle proprie case. Meglio vivere in un appartamento danneggiato, che da profughi in Turchia. L’attività di ricostruzione è intensa. Comitati di quartiere si preoccupano dei bisogni primari. Ma il blocco turco e la necessità di viaggiare sino al confine iracheno rallentano l’economia e rendono tutto più difficile. Dato più rassicurante resta l’affievolirsi della minaccia dell’Isis. «Sino allo scorso luglio nel nostro ospedale militare ricevevamo una media di 15-20 combattenti feriti gravi al giorno. Oggi siamo scesi a meno di 5. E tutti per mine, cannonate o colpi di mortaio: ovvio che si spara a distanza», spiega Mohammed Aref Ali, medico anestesista noto per essere tra i quattro dottori che l’anno scorso decise di non fuggire nel momento più grave dell’assedio.
Lorenzo Cremonesi


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