Una geografia dei murati vivi

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C’è anche il muro di via Anelli, fortemente voluto dal neo-ministro Pd Flavio Zanonato a Padova, nell’impressionante catalogo di muri e palizzate, reticolati di filo spinato e barriere in cemento e acciaio, con cui si apre il libro di Wendy Brown, Stati murati, sovranità  in declino (edizione italiana a cura di Federica Giardini, Laterza, pp. 169, euro 16). È una vera e propria geografia della fortificazione su scala globale quella che ne emerge: dall’India alla Palestina, dal confine meridionale degli Stati Uniti all’Uzbekistan, dall’enclave spagnola di Melilla in Marocco all’Arabia Saudita, dal Kashmir al Botswana vecchi e nuovi confini si cingono di minacciosi dispositivi di contenimento e chiusura.
Ma anche all’interno degli spazi che questi confini dovrebbero delimitare si moltiplicano i muri, a delimitare ghetti e slum o a filtrare l’accesso alle gated communities , gli spazi recintati e sorvegliati in cui – in un numero crescente di Paesi – si rinserrano a vivere i ricchi.
 «Murare fuori» e «murare dentro»: sono questi i due momenti essenziali, secondo Brown, di una sorta di dialettica dei muri, che nel momento in cui pretendono di proteggere dall’infiltrazione di minacce esterne (i migranti, la povertà , i terroristi, o un’epidemia di afta epizootica) puntano ad assicurare la stabilità  e la sicurezza dell’identità  murata. Occupazioni di territorio Vi è un che di arcaico, annota Brown, nella «costruzione, lenta e manifesta, di muri fatti di cemento, di mattoni, di ferro, d’acciaio, di filo spinato o anche di fibre sintetiche». Le foto che illustrano il volume restituiscono in modo molto efficace questa irriducibile materialità  del muro (la sua pesantezza spesso monumentale), che pare in contraddizione – anche laddove si ricordi la sua articolazione con altre tecnologie di controllo – con la pretesa natura reticolare e di flusso, se non con la «liquidità », del potere contemporaneo. E del resto: il fatto stesso che si debba registrare la proliferazione globale dei muri a oltre vent’anni dal crollo di quello di Berlino non ci costringe a rivedere criticamente le retoriche a lungo dominanti sulla globalizzazione, su quel «mondo senza confini» che esse annunciavano? Non dovremmo forse considerare niente più che una retorica la stessa «globalizzazione»? E vedere nei muri il segno inequivocabile del «ritorno» (se non dell’intramontabile presenza) dello Stato e della sovranità ? Come annuncia il titolo stesso del libro di Wendy Brown, la sua risposta a quest’ultima domanda è decisamente negativa.
I nuovi muri, scrive, «sono iconografie della recinzione di un territorio sovrano e del potere sovrano di proteggere e contenere, proprio nel momento in cui questi poteri si vanno dissolvendo». Brown sa di che cosa parla: teorica politica di grande finezza, lavora da anni – in particolare sullo sfondo dei dibattiti femministi e dei movimenti delle donne – sui concetti politici fondamentali che hanno articolato l’esperienza storica dello Stato moderno. Il suo precedente libro tradotto in italiano ( La politica fuori dalla storia , a cura di Paola Rudan, Laterza, 2012) dà  conto egregiamente di questo percorso di ricerca, che è giunto a investire criticamente, a partire da una combinazione di Marx e Foucault, il discorso dei diritti, il nesso tra potere e libertà  e le metamorfosi della soggettività  nel contesto della transizione neo-liberale. A venire ora in primo piano, nell’analisi di Brown, è appunto il concetto di sovranità , di cui è sottolineata – sulle tracce dello Schmitt del Nomos della terra – l’originaria connessione con un gesto di «occupazione» e «appropriazione» di terra, dunque con una «recinzione» ( enclosure ). Sovranità , secondo questa prospettiva, è concetto per eccellenza liminare: essa «demarca infatti non solo i limiti di un’entità , ma, attraverso questa demarcazione, istituisce le condizioni e ne organizza lo spazio interno ed esterno».
Non si potrebbe meglio indicare il nesso costitutivo che stringe la sovranità  all’istituto del confine. Ma è il caso di aggiungere, per introdurre la tesi di Brown a proposito della moltiplicazione dei muri come segno della «dissolvenza» della sovranità , che quest’ultima costruisce la propria stabilità  sulla neutralizzazione (per usare un termine schmittiano) del rapporto fondativo che intrattiene con la «recinzione». In altri termini, la sovranità  è tanto più salda quanto più i confini sono sospinti ai margini dell’esperienza politica, quanto più cioè corrispondono alla loro rappresentazione cartografica e sono assunti come qualcosa di scontato. Oggi non è più così: come notava oltre dieci anni fa à‰tienne Balibar i confini tendono piuttosto a essere «dappertutto», a riemergere al centro stesso degli spazi che dovrebbero delimitare. I muri, proprio per il loro carattere arcaico ed eccessivo, «iperbolico», appaiono a Brown il paradossale sigillo di questo vacillare dei confini e della sovranità . È bene aggiungere che a questo vacillare e a questa «dissolvenza» non corrisponde certo un lineare superamento dei confini: quella che Brown descrive è piuttosto una loro scomposizione e ricomposizione, nonché l’irradiazione dei loro effetti di potere (spesso letali, nel Mediterraneo non meno che nelle borderlands desertiche tra Stati Uniti e Messico) al di là  delle linee di confine. Più in generale, Brown propone in questo libro la tesi, per certi versi simile a quella di Saskia Sassen ( Territorio, autorità , diritti , Bruno Mondadori, 2008), secondo cui vivremmo oggi in un «ordine postvestfaliano» (il riferimento è alla pace di Vestfalia del 1648, a cui convenzionalmente si associa l’imporsi dello Stato territoriale sovrano in Europa) senza che ciò determini la fine o l’irrilevanza dello Stato e della sovranità . «Anzi – scrive Brown – il prefisso ‘post’ indica un processo che è temporalmente successivo ma non supera il termine che accompagna». Inutilità  delle «dighe» In questa condizione assai particolare di «posteriorità », Stato e sovranità  continuano a svolgere funzioni essenziali, ma hanno ormai perduto la capacità  di organizzare attorno a sé un ordine coerente e sistematico. E soprattutto: i due ambiti dalla cui neutralizzazione – ancora secondo un tracciato schmittiano – era emerso lo Stato sovrano alle origini della modernità , ovvero l’economia e la teologia, si riappropriano oggi di caratteristiche essenziali della sovranità : la «dominazione oppressiva del capitale» e la «violenza politica autorizzata per via divina» appaiono a Brown figure di una sovranità  ormai disgiunta dallo Stato nazione. Che il proliferare di muri descritto in questo libro non sia di per sé in contraddizione con le pretese della prima di queste figure (del capitale) Brown lo mostra in particolare a proposito del muro in costruzione sul confine meridionale degli Stati Uniti (che è, insieme a quello israeliano che si snoda attorno alla Cisgiordania, quello su cui la sua analisi si concentra).
Senza indulgere ad alcun determinismo economico, il fatto che la Golden State Fence Company – l’impresa che ha realizzato un ampio tratto della barriera di confine in California – sia stata multata tre volte per aver ingaggiato centinaia di lavoratori migranti privi di documenti mostra in modo fin troppo chiaro come la fortificazione del confine contribuisca a un processo di produzione di una forza lavoro senza diritti e con debole potere contrattuale. I nuovi muri appaiono spesso delle «dighe, costruite per regolare più che per bloccare i flussi».
 Sono sostanzialmente inefficaci rispetto agli obiettivi dichiarati per la loro costruzione e agiscono piuttosto, come Brown scrive riprendendo le analisi di Eyal Weizman sul muro israeliano e quelle di Peter Andreas, Mike Davis e Nicholas De Genova su quello statunitense, sul terreno della spettacolarizzazione e dell’iconografia: mettono cioè in scena «una performance rituale», attivando e mobilitando nazionalismo e razzismo assai più di quanto non rispondano a essi. È in fondo una funzione di rassicurazione simbolica quella svolta dai nuovi muri, «soluzioni politiche sospese» che nell’incerto presente postvestfaliano agiscono nel rovescio di una sovranità  in dissolvenza assai più di quanto non concorrano a riaffermarla. Nell’ultimo capitolo del libro, Wendy Brown lavora sul versante psicanalitico del «desiderio di muri» e delle fantasie che lo nutrono (fantasie di impermeabilità , purezza, innocenza e di virtù).
All’incrocio tra le teorie della «difesa» di Sigmund e Anna Freud i muri emergono come dispositivi di restaurazione dell’« imago del sovrano e delle sue capacità  protettive», come «templi moderni in cui dimora lo spettro della sovranità »: «forniscono magicamente protezione contro forze incomprensibilmente enormi, corrosive e umanamente incontrollabili», ammantandosi di un’aura teologica. I confini mutanti Stati murati, sovranità  in declino è un bel libro, si legge d’un fiato e appassiona per la ricchezza dei riferimenti teorici, sempre padroneggiati con sicurezza ed eleganza, e dei materiali «empirici» analizzati. È indubbiamente un contributo importante al ricco dibattito internazionale sulle trasformazioni della sovranità  e dei confini nel contesto dei processi globali contemporanei. Voltata l’ultima pagina del libro, tuttavia, resta al lettore un senso di inappagamento. Il percorso psicoanalitico proposto da Brown finisce infatti per mostrare la forza dei muri, per consolidare l’impressione (il timore) che non vi siano alternative a quella dialettica tra il «murare fuori» e il «murare dentro» che vorremmo invece (con l’autrice) scardinare. Verrebbe da dire che a questo libro manca un capitolo: quello dedicato alla ricerca sulla fragilità  dei nuovi muri, sulle lotte che già  ora – negli spazi di confine e ovunque si irradino gli effetti di questo istituto – stanno minando le basi materiali di quella dialettica.


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