UN ANNO STREGATO

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Su quel palco dove verranno premiati – unica splendida eccezione i salti contadini guizzanti gioia di Roberto Benigni – raccontano perfettamente la montagna di delusioni e di sofferenza che hanno dovuto scontare negli anni per giungere infine a quella vittoria e a quell’onore.
Per qualche ragione siamo felici di assistere allo spettacolo della breve e selvaggia gioia di chi vince, ma non ci garba granché leggere di una vittoria, tantomeno se raccontata dal vincitore. Perché è difficilissimo scriverne senza apparire arrogante, tronfio, sempre e comunque inelegante e incurante di urtare la sensibilità  di chi non vince e non ha vinto mai – legione alla quale, del resto, prima di vincere il Premio Strega 2011 ero sempre appartenuto.
Non lo farò, dunque. Non proverò nemmeno a raccontarvi le speranze e i timori e i fervori e le disillusioni e le palpitazioni ottocentesche
di quei giorni che mi par d’aver passato tutti in treno, sempre tentato di fare come quell’amico di Alvaro che decise di accompagnare la squadra del T. C. Prato in trasferta ad Anzio e, alla fine del viaggio, proprio davanti al cartello ANZIO, disse che non ce la faceva più, tornava a casa. Era stato un viaggio troppo lungo. A chi gli fece notare che ormai era arrivato, rispose che lo sapeva, certo, ma non ne poteva più lo stesso.
Dovunque fosse, non ne poteva più. E tornò a Prato.
Però non riesco nemmeno a far finta di non esser stato infantilmente, infinitamente, vergognosamente felice di questa vittoria, e d’esserlo ancora oggi. E voglio anche confessare di ritrovarmi ogni tanto a esultare come un calciatore, il sibilo di un Sì a svanirmi tra le labbra, il pugno stretto fino a farmi male, al pensiero improvviso d’esser riuscito ad aggiungere il mio cognome corto e popolaresco a un elenco dei vincitori che avvia con Flaiano
e prosegue con Pavese, Moravia, Soldati, Buzzati, Tomasi di Lampedusa, Cassola e poi La Capria, Cancogni, Eco, Parise, Citati
e via e via e via fino ad arrivare a Sandro Veronesi e Antonio Pennacchi.
Tanto ne sono entusiasta dall’aver avvicinato qualche mese fa il titanico coordinatore della Fondazione Bellonci, Stefano Petrocchi, ed avergli chiesto per quale incomprensibile ragione si ostinassero a volerlo mettere in palio anche quest’anno, il Premio Strega, senza decidere invece di attribuirlo per sempre all’ultimo vincitore, e cioè a me, un po’ come quando la Coppa Rimet fu consegnata al Brasile.
Non mi vergogno punto di questi, chiamiamoli così, eccessi.
Forse perché devo la mia vittoria al racconto d’una sconfitta – mia prima di tutto, e totale, e poi della mia famiglia, della mia azienda e di altre decine di migliaia di imprenditori di microaziende manifatturiere sparse in tutta Italia e costrette a licenziare e a chiudere e a fallire, con le loro centinaia di migliaia di dipendenti e le loro famiglie. Forse perché sono stati tanti a venire a ringraziarmi d’aver scritto che la nostra generazione sarà  la prima da secoli ad avere un futuro peggiore di quello dei nostri genitori, e che qualcuno dovrebbe avere almeno il coraggio di chiederci scusa. Forse perché vincendo il Premio Strega potrò continuare a vivere la vita splendida e squinternata dello scrittore, scudisciato ogni giorno dalla mia incapacità , sempre distratto e sempre interrotto, mai davvero visitato da quel flogisto forse inesistente che chiamano ispirazione, eppure forzato da un’ossessione meravigliosa che mi costringe, come il naufrago delle barzellette, a continuare a scrivere e riscrivere le mie storie e chiuderle in tante bottiglie da affidare al mare, nella flebile speranza che qualcuno armi una nave e venga a recuperarmi, come ne I figli del capitano Grant.
O forse perché quel 7 di luglio del 2011 arrivai al Ninfeo di Villa Giulia con la mente piena degli anni lunghissimi trascorsi in fabbrica, carezzato dal ricordo delle facce degli operai e degli impiegati e dei rappresentanti e dei clienti e dei fornitori della mia azienda venduta, commosso di tutta la rabbia e di tutto l’amore che mi ci erano voluti per fare per quindici anni quel lavoro meraviglioso e italianissimo che temevo mi avrebbe ingabbiato e impedito di scrivere e che invece mi stava conducendo a vincere il Premio Strega, partendo dalla via Ortigara di Narnali.
No, non mi vergogno di nulla, della mia prima vittoria. Mai stato buono, del resto, a vergognarmi. Tantomeno d’averla dedicata, in diretta televisiva, A tutti quelli che hanno perso il lavoro, e a Prato, la mia città  mera- vi-glio-sa.
Così, scandendo ogni sillaba. Me lo ricordo perfettamente.
( ha vinto il Premio Strega 2011 con il libro “Storia della mia gente” pubblicato da Bompiani)


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