Usa, rivoluzione energetica Obama avvia l’export di gas

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NEW YORK — Barack Obama ci inonderà  di gas naturale. L’Amministrazione Usa ha avviato una svolta nella sua politica energetica, le cui conseguenze si sentiranno a livello mondiale. Via libera all’export di gas verso Europa e Giappone: dunque una spinta ulteriore al ribasso dei prezzi (già  in forte calo), e alla conversione delle centrali termoelettriche dal carbone al gas. L’impatto economico è uno stimolo alla crescita mondiale, con il ribasso della bolletta energetica. L’impatto ambientale sarà  una riduzione delle emissioni di CO2 perché il gas naturale ne genera in misura minore rispetto ai suoi concorrenti fossili (carbone e petrolio). L’industria automobilistica americana riscopre perfino le “automobili a gas” lanciandone la produzione su larga scala. E non mancano le ripercussioni geostrategiche: la Russia non potrà  più esercitare il “ricatto del gas” verso l’Europa occidentale. Quest’ultimo è uno dei fattori che Obama ha preso in considerazione, per affrancare i paesi alleati dalla dipendenza verso Mosca o il mondo arabo.
Il segnale della svolta è giunto venerdì con il via libera della Casa Bianca per la costruzione di un nuovo impianto, Freeport Lng, che dal terminale di
Quintana Island esporterà  gas liquefatto, soprattutto verso il Giappone, al ritmo di 40 milioni di metri cubi al giorno. È un investimento da 10 miliardi di dollari che nella fase della costruzione è guidato dalla ConocoPhillips. Due utility giapponesi (Chubu Electric Power e Osaka Gas) insieme con la Bp inglese, hanno già  firmato contratti ventennali per l’acquisto del gas naturale. Freeport Lng si aggiunge a un altro terminale, il Sabine Pass in Louisiana. In quest’ultimo sono coinvolti come azionisti anche i francesi di Gdf Suez oltre a tre gruppi giapponesi: Mitsui, Mitsubishi e Nippon Yusen. Le forniture cominceranno nel 2015 dalla Louisiana e nel 2017 dal Texas verso il resto del mondo.
Il Dipartimento di Energia ha spiegato che il suo via libera è dovuto a tre fattori positivi: il miglioramento della bilancia commerciale americana, la riduzione
delle emissioni carboniche, e il sostegno agli alleati degli Stati Uniti che non sono autosufficienti nei loro consumi energetici. Dietro questa rivoluzione
ci sono anzitutto le novità  tecnologiche. La diffusione della “trivellazione orizzontale” e del “hydraulic fracturing” detto anche “fracking”, ha reso economicamente redditizio lo sfruttamento di nuovi e vasti giacimenti di gas naturale. È così che l’America ha sorpassato in poco tempo la Russia come numero uno mondiale nella produzione di gas naturale. Peraltro l’offerta mondiale di gas naturale continua a crescere anche altrove: dal Brasile al Canada, dal Qatar all’Australia. Ma fino a poco tempo fa, Obama aveva dovuto vedersela con due resistenze. Da una parte la lobby dell’industria chimica e siderurgica americana ha difeso una politica autarchica, cioè il divieto all’export in vigore ancora in tempi recenti. L’autarchia, che nacque a un’epoca in cui l’America non era autosufficiente, temeva la dipendenza dal petrolio arabo e voleva stimolare la produzione nazionale, si è trasformata in una rendita per l’industria chimica e siderurgica Usa che hanno energia a bassissimo prezzo. L’altra resistenza veniva dai movimenti ambientalisti contrari al fracking, come il Sierra Club. Alla fine Obama ha sconfitto la lobby chimico-siderurgica guidata dalla Dow Chemical. Agli ambientalisti il presidente ribatte che il gas naturale, pur non essendo una fonte rinnovabile e pulita come il solare e l’eolico, è comunque un “male minore” rispetto ai concorrenti diretti cioè petrolio e carbone.
La sovrabbondanza di gas a buon mercato ha spinto le imprese del settore a finanziare la conversione “bi-fuel” di molti modelli automobilistici, a cominciare dalle vetture Gm Ford e Chrysler, perché possano alimentarsi alternativamente a gas liquido o benzina.


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