«Noi donne in pericolo: mi vieteranno di cantare?»

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Stella splendente dell’ancora incerto mondo musicale afghano, interprete originale delle antiche tradizioni del suo Paese che negli ultimi due anni è riuscita a imporsi con prepotenza sul suo pubblico con motivi che mischiano classico e ritmi ispirati al rock contemporaneo, Aryana reagisce con preoccupazione alla notizia che gli americani stanno avviando dialoghi diretti con i rappresentanti del Mullah Omar. «E’ un errore dare credito ai talebani. Appena la coalizione internazionale se ne sarà andata si rimangeranno qualsiasi promessa e torneranno a imporre la loro folle teocrazia islamica», dice. Non che sia una sfegatata simpatizzante per Hamid Karzai. Tutt’altro. In genere la politica le interessa poco. «Credo nella musica come veicolo che unifica i popoli e porta la pace», ripete. Però concorda con le critiche espresse dal suo presidente contro la svolta voluta da Barack Obama: «Karzai ha fatto bene a prendere le distanze. Dobbiamo difenderci, abbiamo il diritto di difenderci!».

La sua biografia è quella degli afghani che non vogliono tornare al Medioevo. Nata nel 1985 a Kabul da padre pashtun e madre tajika, ha l’infanzia segnata dalle battaglie tra invasori sovietici e guerriglia mujaheddin. Quando ha solo otto anni, e la lotta di liberazione precipita nella guerra civile, fugge con la famiglia in Pakistan, poi a Zurigo, infine nel Duemila si stabiliscono a Londra. «E’ sul Tamigi che scoprii il mio amore per la musica. Mio padre era ben collegato con la comunità afghana in esilio. Venivo chiamata a cantare per le feste di matrimonio, nei party privati. I miei modelli erano Jennifer Lopez e Amy Winehouse», ci raccontava tre settimane fa in un ristorante di Kabul. La svolta avviene con la decisione di rielaborare in chiave contemporanea alcuni motivi classici del repertorio afghano. «E’ così che sfondai con Mashallah, una canzone d’amore scritta ottanta anni fa. Folk e Rock, fu un successo totale, sono tornata da star nel mio Paese d’origine». Due anni fa compone «Afghan Pesarak», che in Dari significa «Ragazzo Afghano», mischia motivi indiani e pakistani. «Tolo», la più importante televisione nazionale, la invita come ospite fissa. «Il motivo piace, perché con voce di donna parlo al cuore dei nostri uomini», commenta. E intanto rilancia con «Gul-e-Seb», Fiore di melo, un motivo composto nel 1935. Il successo è tale che le affidano un programma tutto suo. Ogni settimana conduce una serata in cui invita almeno due cantanti esordienti. Non è difficile cogliere la sua popolarità. Nel ristorante dove ci incontriamo la riconoscono tutti. Ancora non si è seduta al tavolo che il proprietario fa suonare alcuni dei suoi brani tra gli applausi. Ma con la notorietà arrivano anche le minacce, le intimidazioni. «Da circa un anno mi mandano messaggi minatori. Mi hanno accusato di corrompere i giovani e le donne. Così non ho una dimora fissa. Viaggio di continuo tra Londra e Kabul. Ogni volta sto in una lodge diversa. E non so proprio come andrà a finire. Nel 2014 le truppe Nato-Isaf dovrebbero andarsene. Ma non credo che i nostri soldati siano in grado di rimpiazzarle». Da qui la scelta di passare a canzoni più militanti. In quella che sta preparando, «La donna che siede sul fuoco», recita: «Ho un tal numero di sofferenze che la morte mi sembra un privilegio. Sono un peso per mio figlio, una schiava come moglie e un fardello come sorella».

Lorenzo Cremonesi


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