La nostra piazza Taksim

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La repressione è scattata ugualmente. Come a Istanbul e Ankara, il potere non ha oggi altra risorsa che la violenza per confrontarsi con il conflitto sociale che monta.
Terni è un segnale che governo, forze politiche, sindacati, media faranno bene ad ascoltare: siamo sull’orlo di un vulcano, la rabbia e la disperazione possono esplodere da un momento all’altro. Intrecciata con la vicenda contemporanea dell’Ilva, quella delle acciaierie di Terni proclama il fallimento delle politiche di privatizzazione e della dismissione dell’apparato industriale del paese in omaggio a una «modernità» d’accatto che credeva che fare l’acciaio fosse un ciarpame da lasciare al terzo mondo. E che in questo processo ha seminato il paese di rovine, di disoccupazione, di povertà. Quello che è successo a Terni può ripetersi ed espandersi, come in Turchia, in forme imprevedibili e incontrollabili.
Alla stazione di Terni, poi, le «forze dell’ordine» sono incorse in un infortunio professionale: bastonando indiscriminatamente, hanno finito per rompere la testa anche al sindaco della città, accorso sul posto per cercare di calmare le acque. E’ un infortunio dal doppio valore simbolico: da un lato, dimostra che non c’è nessun bisogno di essere «facinorosi» per uscire con la faccia insanguinata da un confronto con la polizia; dall’altro, nella misura in cui il sindaco rappresenta la città, è anche il segno di come, nonostante decenni in cui Terni città ha provato a prendere le distanze dalla sua acciaieria, nei momenti cruciali questa fabbrica rimane ancora il suo cuore e le sue vene e gli operai come già nella Resistenza (lo ha ricordato oggi il sindaco Di Girolamo) sono ancora una volta la voce della democrazia che parla per tutti. La repressione è scattata ugualmente. Come a Istanbul e Ankara, il potere non ha oggi altra risorsa che la violenza per confrontarsi con il conflitto sociale che monta.
Terni è un segnale che governo, forze politiche, sindacati, media faranno bene ad ascoltare: siamo sull’orlo di un vulcano, la rabbia e la disperazione possono esplodere da un momento all’altro. Intrecciata con la vicenda contemporanea dell’Ilva, quella delle acciaierie di Terni proclama il fallimento delle politiche di privatizzazione e della dismissione dell’apparato industriale del paese in omaggio a una «modernità» d’accatto che credeva che fare l’acciaio fosse un ciarpame da lasciare al terzo mondo. E che in questo processo ha seminato il paese di rovine, di disoccupazione, di povertà. Quello che è successo a Terni può ripetersi ed espandersi, come in Turchia, in forme imprevedibili e incontrollabili.
Alla stazione di Terni, poi, le «forze dell’ordine» sono incorse in un infortunio professionale: bastonando indiscriminatamente, hanno finito per rompere la testa anche al sindaco della città, accorso sul posto per cercare di calmare le acque. E’ un infortunio dal doppio valore simbolico: da un lato, dimostra che non c’è nessun bisogno di essere «facinorosi» per uscire con la faccia insanguinata da un confronto con la polizia; dall’altro, nella misura in cui il sindaco rappresenta la città, è anche il segno di come, nonostante decenni in cui Terni città ha provato a prendere le distanze dalla sua acciaieria, nei momenti cruciali questa fabbrica rimane ancora il suo cuore e le sue vene e gli operai come già nella Resistenza (lo ha ricordato oggi il sindaco Di Girolamo) sono ancora una volta la voce della democrazia che parla per tutti.


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