LE MEDAGLIE NON BASTANO

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el momento stesso in cui è entrata a far parte del governo della Repubblica, la cittadina Idem ha assunto una responsabilità speciale, esercitando la quale risulta capzioso dichiarare: «Io sono un’atleta, non una commercialista».
È lei che ha sottoscritto di fronte allo Stato le attestazioni risultate false o irregolari in materia fiscale e edilizia, compilate da esperti di sua fiducia. Nessun contribuente può scaricare le proprie responsabilità sui professionisti cui ha fatto ricorso. Per questo appare del tutto fuori luogo che la ministra abbia voluto richiamare ieri, nella sua autodifesa pronunciata in una sede istituzionale, il carnet di una carriera pur ammirevole: «Ho vinto più di 30 medaglie per l’Italia, ho partecipato a 8 Olimpiadi». Quasi che ciò dovesse garantirle, chissà perché, una speciale indulgenza muscolare ora che i suoi comportamenti di privata cittadina vengono messi in relazione all’incarico pubblico da lei assunto come responsabile delle Pari Opportunità.
Spiace rilevare che Josefa Idem, forse inconsapevolmente, si sia adeguata a un vezzo già fin troppo diffuso nella classe dirigente italiana: distorcere per convenienza il concetto di reputazione. Fra i protagonisti della nostra politica c’è chi rivendica il diritto di venire assolto dalle proprie colpe in quanto detentore di un forte consenso elettorale, lo sappiamo bene. Ci manca solo che adesso un membro del governo strumentalizzi a fini attenuanti le sue performance agonistiche. Non la canoista è sottoposta a giudizio pubblico, bensì la ministra di un governo che rivendica fra le sue priorità la lotta contro la piaga dell’evasione e dell’elusione fiscale.
È dunque apprezzabile che la Idem si sia scusata pubblicamente per le irregolarità compiute, così come essa merita la nostra solidarietà per gli insulti misogini a lei rivolti da personaggi screditati come Mario Borghezio. Ma aggrapparsi alla propria popolarità per definirsi come oggetto di una campagna denigratoria, rappresenta un doppio errore politico: sbaglia una prima volta perché il vittimismo dei governanti è un vizio che ha già fin troppo deteriorato il loro rapporto con una cittadinanza esasperata; e sbaglia una seconda volta perché ignora le speciali aspettative che l’opinione pubblica riversa su personalità esemplari della società civile, chiamate a testimoniare con il loro comportamento la possibilità di superare il vecchio andazzo. È proprio da donne di talento e di successo come lei che viene naturale pretendere comportamenti adamantini. E dunque il curriculum con cui ha pensato di proteggersi le si ritorce contro: perché mai una campionessa che ha vinto tutto dovrebbe ricorrere a trucchi per pagare meno tasse sulla sua casa-palestra? Perché mai dovrebbero bastarle dieci giorni lavorativi come dipendente unica di una società del marito per ottenere in seguito 8642 euro di contributi pensionistici a carico del Comune di Ravenna, quando ne divenne assessore?
Reagire indispettita alle legittime domande dei giornalisti, fino ad abbandonare la tribuna di Palazzo Chigi quando le è stato chiesto se si dimetterebbe qualora fosse indagata, è molto peggio che un’ingenuità. Otto medaglie non si trasformeranno mai in uno scudo fiscale; né gli applausi dei tifosi basteranno mai a coprire lo stridore di escamotage compiuti “a sua insaputa”.


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