Pensioni, rincorsa tra riforme e invecchiamento

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ROMA — La riforma Fornero delle pensioni, da sola, porterà, nel decennio 2012-2021, risparmi di spesa di «oltre 80 miliardi rispetto alla normativa previgente e tenendo conto dei costi delle salvaguardie» accordate agli esodati (finora circa 10 miliardi di euro). Si tratta quindi di una riforma imponente che, del resto, arriva dopo un ventennio di continui inasprimenti delle regole. Per avere un’idea dell’impatto di tutte le riforme basti dire che fino al 1992 l’età minima per andare in pensione di vecchiaia era di 55 anni per le donne e di 60 anni per gli uomini mentre per ottenere la pensione di anzianità bastavano 35 anni di contributi senza limiti di età, e questo per non parlare delle baby pensioni nel pubblico impiego accordate con appena 19 anni e mezzo di versamenti agli uomini e con 14 anni e mezzo alle donne. Oggi per andare in pensione di vecchiaia servono invece come minimo 66 anni e 3 mesi per gli uomini del settore privato (e per le donne del pubblico impiego) e 62 anni e 3 mesi per le donne del privato, che raggiungeranno i maschi nel 2018, quando tutti dovranno avere almeno 66 anni e 7 mesi. Per lasciare il lavoro con la pensione anticipata, invece, non bastano più 35 anni di contributi, ma ne servono almeno 42 anni e 5 mesi per gli uomini e 41 anni e 5 mesi per le donne. Il punto della situazione è stato fatto ieri da Antonietta Mundo, responsabile del servizio statistico attuariale dell’Inps al X congresso nazionale degli attuari.

«Dopo la stagione delle riforme», ha spiegato Mundo, la sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale «è sicuramente migliorata». Ora, però, «occorre sostenere l’occupazione, soprattutto quella giovanile, per garantire la contribuzione di un sistema a ripartizione». Le stime sulle dinamiche della popolazione fanno infatti vedere in prospettiva una società italiana molto più vecchia, dove aumenta il numero dei pensionati e servono quindi più occupati perché è con i loro contributi che, in un regime a ripartizione, si pagano le pensioni. Gli ultrasessantacinquenni sulla popolazione totale passeranno dal 21% attuale al 33% nel 2060. Oggi ci sono 32 persone con più di 65 anni ogni 100 individui nella fascia d’età fra 20 e 64 anni. Nel 2060 questo indice di dipendenza degli anziani raddoppierà, arrivando al 60,7%. Adesso gli uomini di 65 anni hanno una speranza di vita di altri 18,7 anni e le donne di 22,3, nel 2060 per i maschi si salirà a 23,2 e per le femmine a 27,3. Buone notizie, ovviamente, che però hanno un impatto sugli equilibri finanziari della previdenza perché ci saranno più anziani da mantenere con i contributi dei lavoratori.

Le riforme degli ultimi venti anni sono intervenute su più fronti. 1) Riducendo il numero delle pensioni e le annualità di pagamento: è il risultato dell’aumento dei requisiti d’età e contribuzione necessari per la pensione. 2) Tagliando il rendimento dei versamenti, via via che il metodo di calcolo contributivo andrà a regime. La relazione Mundo mostra infatti che mentre oggi qua si il 90% delle pensioni in pagamento è stata liquidata col più generoso metodo retributivo, nel 2060 questa percentuale si ridurrà all’8,9% mentre il 40,4% degli assegni in pagamento sarà stato calcolato col metodo contributivo e il 50,7% col sistema misto (retributivo e contributivo). 3) Forti risparmi arriveranno anche dai coefficienti di trasformazione che verranno rivisti ogni 2 anni in relazione alla speranza di vita. E su che cosa accadrà Mundo è stata molto chiara: «L’allungamento della vita comporterà necessariamente, per il principio dell’equivalenza attuariale, una diminuzione degli importi delle pensioni», perché esser verranno riscosse per più anni. Un effetto che si potrà contrastare solo al prezzo di lasciare il lavoro sempre più tardi, utilizzando così coefficienti di trasformazione più generosi che verranno calcolati per età di pensionamento fino a 70 anni. In questo caso, sintetizzano gli attuari Inps, «si lavorerà più a lungo, si percepiranno assegni più alti ma per meno tempo». 4) Infine, governi e parlamento, ha spiegato Mundo, sono più volte intervenuti nel corso degli anni limitando o bloccando l’adeguamento delle pensioni più ricche. L’Inps ha preso in esame un campione di circa 155mila pensioni in pagamento dal ’95 a oggi e ha concluso che gli assegni fino a 3 volte il minimo (1.486 euro al mese) «non hanno subito penalizzazioni apprezzabili». Per quelli di importo superiore, invece, il danno è progressivo: hanno perso circa il 10% del loro valore le pensioni intorno ai 2.800 euro e quasi il 15% gli assegni superiori a 8 volte il minimo (3.963 euro) .

La relazione Mundo ha suscitato le reazioni dei sindacati. «La riforma Fornero è stata una gigantesca operazione di cassa», dice Domenico Proietti (Uil). «I pensionati sono stati gli unici a pagare una patrimoniale», aggiunge Carla Cantone (Spi-Cgil). «È necessario risollevarne la condizione», conclude Gigi Bonfanti (Fnp-Cisl).

Nonostante tutte le riforme, le tendenze demografiche tengono sotto pressione il sistema. E l’andamento dell’economia non aiuta. Dietro l’angolo si affaccia infatti un altro pericolo, che gli attuari ben conoscono anche se per ora non hanno sollevato il problema: la progressiva riduzione del coefficiente di rivalutazione del montante contributivo che viene calcolato ogni anno in base all’andamento del prodotto interno lordo dei precedenti 5 anni. A causa della prolungata recessione, il coefficiente si sta avvicinando alla soglia sotto la quale lo stesso montante diminuisce. Salvo sorprese ciò accadrà dal 2014, creando ulteriori danni all’importo delle pensioni. Ecco perché è fondamentale tornare a crescere e a creare occupazione.

Enrico Marro


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