“Così la Polizia mi ha taciuto l’identità di Alma”

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Nella fretta indiavolata di chiudere la partita dell’espulsione della moglie del dissidente Ablyazov, la diplomazia kazaka offrì accidentalmente alle autorità italiane lo strumento per bloccarla e dare un finale diverso a questa storia. Ad Astana infatti erano convinti (o qualcuno gliel’aveva suggerito) che fosse necessario dimostrare la falsità del passaporto centrafricano di Alma Shalabayeva per accelerarne il rimpatrio. Quindi il 30 maggio l’ambasciata invia la nota n° 31 con la fotocopia dei due passaporti kazaki validi, e gli estremi di quello ritenuto falso, all’Ufficio immigrazione della questura di Roma. E lì rimase, stando al racconto che il giudice di Pace Stefania Levori consegna a Mario Bresciano, il presidente del Tribunale di Roma incaricato dal ministero della Giustizia di chiarire perché fu convalidato il 31 maggio il trattenimento di Alma al Cie di Ponte Galeria. Premessa di quella espulsione lampo che sarebbe avvenuta dì lì a qualche ora.
LA VERSIONE DI LAVORE
«La nota dei kazaki non mi è stata recapitata — si legge nel verbale che Repubblica ha potuto visionare — nel fascicolo avevo il decreto di sequestro del passaporto centrafricano, il verbale della polizia di Fiumicino che lo giudicava contraffatto e due dichiarazioni dal Centrafrica». In base a queste ultime, Alma Ayan (così si era presentata al giudice) era un soggetto conosciuto. «Se avessi avuto altri documenti — sostiene il giudice di Pace — non avrei convalidato il trattenimento al Cie». Si sarebbe imposta una domanda, infatti: chi era veramente quella donna? Alma Ayan o Alma Shalabayeva? E l’unica risposta di senso a quel punto avrebbe portato una conseguenza: in quanto cittadina del Kazakhstan con due passaporti validi e due permessi di soggiorno, bisognava concederle un termine congruo per allontanarsi volontariamente dall’Italia. Senza espulsione, e con la possibilità di decidere in quale Paese andare.
«Ho solo applicato la legge, non ho ricevuto pressioni da nessuno », sostiene Lavore. Non ci sono accuse, nel verbale. Non dice di essere stata ingannata, come invece conclude Bresciano nella relazione finale all’Ispettorato del ministero, che oggi arriva sulla scrivania del procuratore di Roma Pignatone. Chi avrebbe dovuto mandarle quella nota?
L’UFFICO IMMIGRAZIONE
Già nel primo cablo n° 1614 inviato da Astana all’Interpol di Roma il 28 maggio si accennava ad «Alma Shalabaeva Boranbaeva, nata il 15 agosto 1966». E con il cablo seguente, il n°1625, si dava conto nel dettaglio dei due passaporti kazaki da lei posseduti. Quelle carte all’ufficio del giudice di Pace non arrivano. E nemmeno arriva — secondo la versione della Lavore — la nota dell’ambasciata kazaka inviata all’ufficio Immigrazione della Questura, guidato da Maurizio Improta. Il Dipartimento di Pubblica sicurezza sostiene invece che nel fascicolo del giudice di pace c’erano tutte le note e i cablo. «Peraltro — aggiungono le stesse fonti di polizia — durante l’udienza gli avvocati della donna informarono il giudice della sua cittadinanza kazaka, ma fu decisivo il fatto che la donna non aveva materialmente con sé i due passaporti. In quel momento era una clandestina, per la quale non era possibile la procedura di allontanamento volontario». Bisognerà capire però se le carte sono arrivate tutte prima dell’udienza di convalida di quel 31 maggio, che si chiuse alle 11.20.
LA PREFETTURA INGANNATA?
È un fatto che l’espulsione pare decisione presa già il 29 maggio, con il provvedimento emesso dalla Prefettura. A quella data i cablo Interpol di Astana sono già arrivati a Roma. Il prefetto seppe di quelle note? No, stando alla motivazione del successivo decreto di revo-
del 12 luglio. «Sono stati acquisiti elementi del tutto sconosciuti al momento dell’adozione e, come tali, non considerati dalle autorità giudiziarie».
È un fatto pure che il giudice di pace chiamato la scorsa settimana a giudicare sulla legittimità dell’espulsione abbia sì dichiarato «cessata la materia del contendere », ma nello stesso tempo abbia condannato la Prefettura al pagamento di un migliaio di euro di spese legali per il principio della “soccombenza virtuale”, una sorta di valutazione positiva indiretta sul merito del ricorso presentato dagli avvocati della donna kazaka.
LA PROCURA DI ROMA
Quella nota, la n° 31, di certo arriva alla procura di Roma nello stesso giorno in cui si compie il destino di Alma e della figlia Alua, imbarcate su un aereo e riportate ad Astana. Tra le 3 e le 5 del pomeriggio del 31 maggio, infatti, viene chiesto da Pignatone e dal sostituto Eugenio Albamonte un supplemento di istruttoria per concedere il nulla osta. Ma la documentazione inviata dall’ufficio di Improta e che avrebbe potuto fermare tutto diventa al contrario decisiva per l’espulsione. «Perché — spiegano fonti della procura — la valutazione era limitata solo alla posizione processuale della Shalabayeva ». C’era da decidere cioè se la presenza di Alma in Italia fosse discriminante o meno per il procedimento che la vedeva, e la vede, indagata per falso. L’unica, finora, di questa storia.


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