DISSIDENTI Quell’opposizione solitaria da Stalin fino a Putin

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C’erano, al tempo dell’Urss e del suo universo concentrazionario chiamato Gulag (l’acronimo della Direzione generale dei campi reso metafora di oppressione da Aleksandr Solgenitsyn), dissensi diversi, non solo in senso numerico, ma soprattutto di tipologia. Talvolta colloquiavano tra loro, sporadicamente collaboravano e si sostenevano, senza mai riuscire ad avere un leader riconoscibile e riconosciuto, tantomeno a formare un partito (come accadde in Polonia con Solidarnosc). Il dissenso di oggi rispetto a quello del secolo scorso di cui non è neppure lontanamente parente, è meno catacombale, meno romantico, intriso di interessi economici conseguenti all’esplosione degli oligarchi. Ma resta, oggi come allora, una somma di individui senza una connessione sociale, culturale e neppure un programma.
Questa incapacità strutturale del dissenso di farsi opposizione e diventare così una vera alternativa al regime spiega perché tutto il travaglio politico cui abbiamo assistito dalla morte di Stalin in poi si sia svolto all’interno del partito unico, il Pcus, e delle sue filiazioni post-sovietiche, e in buona misura nelle segrete stanze dei servizi di sicurezza: la rottura di Krusciov con i fantasmi dello stalinismo e il suo rozzo tentativo di liberalizzare la cultura, il ripristino dell’ortodossia comunista e della disciplina ideologica da parte della trojka Breznev-Podgornyj-Kossighin, le brevi (e un po’ sottovalutate) parentesi di Andropov e Cernenko, la lucida rivoluzione, ma sempre dentro le mura del Cremlino, della «perestrojka» di Gorbaciov, e quella confusa, forse eterodiretta, di Eltsin, per finire con la controrivoluzione di Putin.
A sessant’anni dalla fine anagrafica dello stalinismo non c’è ancora stato a Mosca un leader che non sia uscito dal Pcus. E lo stesso vale per buona parte delle ex repubbliche sovietiche, soprattutto quelle asiatiche, dove i satrapi comunisti dell’epoca brezneviana hanno creato delle dinastie, dagli Aliev in Azerbaigian ai Nazarbaev in Kazakhstan, nelle cui bandiere le trivelle petrolifere hanno preso il posto della falce e del martello. Il dissenso sovietico,
velleitario, disaggregato, rissoso, talvolta opportunista ha le sue colpe, che quello russo ha in gran parte ereditato, mantenendo inalterato quel carattere di testimonianza piuttosto che di proposta, che è il contrario della politica.
Prendendo a prestito il titolo di un libro di Solgenitsyn, ispirato dall’Inferno dantesco (Il primo cerchio, del 1968), il dissenso sovietico può essere diviso in quattro cerchi, che solo occasionalmente si intersecavano e soprattutto non riuscivano mai a fare massa, e neppure a creare opinione.
Il primo cerchio, quello che si potrebbe chiamare il «dissenso di strada», era il più visibile, il più coraggioso e proprio per questo il più perseguitato. Le sue bandiere era Andrej Amalrik, Piotr Jakir, Vladimir Bukovskij, Piotr Grigorienko, Pavel Litvinov: gente che andava in piazza, si infilava di soppiatto nelle redazioni sorvegliatissime delle agenzie di stampa occidentali, distribuiva samizdat e finiva prima o poi nel Gulag. Secondo un famoso saggio di Abraham Brumberg, pubblicato da Foreign Affairs nel 1974, il «dissenso di strada» nasce nell’ottobre del 1967 quando Litvinov fece circolare il discorso che Bukovskij aveva pronunciato mentre veniva processato per una manifestazione contro l’arresto degli autori di un «libro bianco» sul processo Sinjavskij-Daniel (i due scrittori la cui condanna, nel 1966, aveva segnato per molti storici la fine del disgelo krusceviano).
L’anno dopo, sotto l’influsso della Primavera di Praga, uscì «sotto i mantelli», come si diceva con un eufemismo della clandestinità, il primo numero della «Cronaca degli avvenimenti correnti», il bollettino del dissenso sovietico che riuscì a essere stampato per circa due anni. E cominciarono ad attivarsi anche gli altri cerchi. Il «dissenso scientifico» da Zhores Medvedev, fratello dello storico Roy, a Andrej Sakharov, che si unì a Valerij Chalidze e Andrej Tverdokhlebov per costituire un «Comitato per i diritti umani». Il «dissenso letterario », che trovò in Aleksandr Solgenitsyn, perseguitato dopo l’assegnazione del Nobel nel 1970, l’erede ideale di Sinjavskij e Daniel. Il «dissenso artistico», che ebbe nel grande violoncellista Rostropovic una bandiera riconosciuta e amata perfino dalla gente oltre che dai suoi colleghi (nel dicembre del 1970 riuscì a convincere Richter e Ojstrakh a cancellare un’esecuzione del Concerto triplo di Beethoven per protestare contro la persecuzione di Solgenitsyn).
Fu quel 1970 l’anno d’oro del dissenso sovietico, quando i quattro cerchi sembrarono poter diventare un unico girone minaccioso per il regime. Tanto che per la prima (e unica) volta la Pravda, organo ufficiale del Pcus, sdoganò la parola «dissidenty» in un articolo dal titolo «La miseria dell’anticomunismo »: per denunciare quei «babbei, venduti, farabutti e schizofrenici», che frequentavano le case dei corrispondenti occidentali. Ma le speranze che i vari dissensi diventassero un’unica opposizione svanirono rapidamente. L’arresto e la confessione di Piotr Jakir, nel 1972, fece saltare la fragile struttura del «dissenso di strada» e dei samizdat.
Le espulsioni massicce (da Solgenitsyn a Rostropovic, da Amalrik a Bukovskij) svuotarono le anime dei dissidenti, creando una seconda grande emigrazione russa in Occidente dopo quella che seguita all’avvento dei bolscevichi al potere. Il Nobel per la pace a Sakharov, nel 1975, fu il riconoscimento tardivo di un Occidente sempre poco ricettivo alle richieste di aiuto dei «dissidenty». E il suo esilio interno a Gorkij, decretato nel 1980 da un Breznev ormai decrepito, segnarono la fine di quello che restava del movimento per i diritti civili in Urss.
Trent’anni dopo, nella Russia di Putin cambiano i fattori, ma non il risultato politico. Perché l’Urss è morta, ma il Pcus continua a governare. Un leader che si è ripreso il Cremlino quando ha voluto, dopo averlo temporaneamente ceduto a una sua creatura, combatte il dissenso con processi, accuse spesso fabbricate (come quella contro Aleksei Navalny), sentenze abnormi (il carcere siberiano degno del Gulag per l’ex petroliere Khodorkovskij), o addirittura postume (l’avvocato Magnitsky, morto nel 2009 e processato nel 2013). Oppure con l’emigrazione forzata, una sorta di terza grande ondata, dopo quella dei primi anni Venti o degli anni Settanta, con la differenza che allora la meta era artistica e romantica (la Parigi bohémienne), oggi è pragmatica e finanziaria (la Londra della City).
Ma proprio la scelta dei «migranti involontari» sottolinea la grande diversità tra i dissidenti sovietici dell’epoca brezneviana e quelli russi dell’era putiniana. Come ha scritto sul New York Times un fine analista russo, Vadim Nikitin, «a parte l’attivista anti-corruzione Aleksej Navalny e poche altre eccezioni, come il leader della sinistra Sergei Udaltsov, molte delle vittime di alto profilo delle purghe di Putin sono state sue entusiastiche compagne di viaggio o addirittura hanno reso possibile il regime». Di oligarchi miliardari diventati oppositori è in effetti piena la cronaca anche tragica del nuovo «dissenso» russo: dallo stesso Khodorkovskij a Berezovskij (morto misteriosamente a Londra di recente). E lo stesso accade nelle ex repubbliche sovietiche governate da vecchi membri del Pcus, alleati di Putin: Mukhtar Ablyazov, il dissidente kazako al centro della bufera politica italiana, è stato un sodale di Nazarbaev, prima di diventarne un fiero oppositore. Ed è anche questa estraneità all’uomo della strada la ragione per la quale i dissidenti di oggi, ancor più di quelli di trent’anni fa, non riescono ad avere credibilità per il popolo russo, immerso nella sua indifferenza politica, che rimane immutata nei secoli e nei regimi.


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