Il bastone di Putin destabilizza la Russia

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Con l’ennesima condanna di Stato emessa dai suoi tribunali, Vladimir Putin ha regalato all’oppo- sizione russa quel che più le mancava: un leader cui fare riferimento per cambiare la Russia dei campi di prigio- nia. La sentenza dei giudici di Kirov contro il blogger Alexei Navalny appare assurdamente severa, oltre che politicamente motivata, alla luce di un processo che ha dovuto fare i salti mortali per arrivare alla conclusione prevista: l’esclusione di Navalny dalle presidenziali del 2018.

Ma se crede di aver così eliminato un rivale pericoloso, Vladimir Putin potrebbe invece accorgersi a tempo debito di aver commesso un grave errore di calcolo: creando un martire a lui ostile, e soprattutto rivelando quella debolezza politica tipica di chi agita troppo il bastone.

C’è infatti un interrogativo che interessa il mondo intero e noi europei in particolare, dietro la condanna di Navalny: con la sua deriva autoritaria e repressiva, Vladimir Putin riuscirà nel capolavoro di destabilizzare la Russia pur di bloccarne il cambiamento? Già all’indomani della Guerra fredda si ripeteva in Occidente che l’unica cosa più pericolosa di una Russia forte è una Russia debole. Una Russia riconsegnata ai suoi demoni secolari, in bilico tra Europa e Asia, perseguitata dal suo incubo dell’assedio e della minaccia esterna, ipernazionalista, incontrollabile e minacciosa. Nessuno in Occidente vuole oggi una Russia così, perché vengono utili il suo gas e il suo petrolio, perché il suo mercato interno è immenso, perché possiede il secondo arsenale nucleare del mondo e dispone del diritto di veto all’Onu. La Russia è troppo grande e troppo armata per essere isolata. E così Putin continua a dialogare con Obama e con tutti i leader europei, così San Pietroburgo ospiterà a settembre il G 20, così le polemiche che pure ogni tanto fanno capolino sulle violazioni dei diritti civili e umani che vengono commesse all’ombra del Cremlino non superano mai il livello di guardia. Dopotutto, anche volendo mettere da parte gli interessi economici e strategici (cosa che nessuno fa), nella Russia di oggi Putin non ha alternative che non siano peggiori di lui, a cominciare dai vetero-nazionalisti di varia provenienza.

La condanna di Navalny non cambia nell’immediato questo stato di cose, ma assieme ad altre ingiustizie, e più di altre, indica che in Russia la prospettiva di una evoluzione profonda non è più impossibile. E pone tacitamente una domanda all’Occidente: fin dove potrà spingersi la Realpolitik che malgrado tutto preferisce Putin a chiunque altro? Ce lo dovremmo porre in particolare noi italiani, questo problema, mentre si dibatte attorno a un eccesso di Realpolitik nei confronti del Kazakistan. Esiste un limite, oltre il quale i valori prevalgono sui bisogni energetici, sulle nostre esportazioni in aumento, sulle nostre imprese proficuamente presenti in Russia?

La questione è antica e si applica anche alla Cina, ma l’esperienza insegna che richiami e proteste (obbligatorie se vogliamo almeno difendere la nostra identità a fronte di quelle degli altri) contano assai meno delle nuove realtà emergenti nelle società interessate e delle risposte offerte del potere politico interno.

Anche in Russia l’equazione è questa. E le risposte di Putin sono le peggiori che si potessero immaginare. Da quando è stato eletto per un terzo mandato presidenziale nel marzo 2012, e già prima alle elezioni per la Duma, Putin ha dovuto far fronte non tanto alle pur massicce dimostrazioni di protesta di chi denunciava brogli (veri, ma probabilmente non determinanti), quanto a una realtà del tutto nuova. Il patto sociale delle sue prime presidenze — migliori condizioni di vita contro passività politica — era saltato. Quella stessa classe media che lui aveva contribuito a creare voleva di più, utilizzava Internet come arma politica, aspirava alla libertà di espressione, reclamava rappresentanza attraverso autentiche alternative tra partiti e movimenti diversi, voleva una Tv non soltanto propagandistica, insomma chiedeva a gran voce una modernizzazione della Russia in senso democratico (non parliamo del «modello Westminster», ma di una democrazia russa che è tutta da inventare) e per logica conseguenza esigeva un ricambio al vertice del Cremlino e nel governo .

Captata con chiarezza la sfida, Putin ha reagito come gli viene più naturale da buon ex ufficiale del Kgb: reprimere, reprimere, e ancora reprimere. Per via legale, s’intende. E senza autorizzare i demenziali paragoni con lo stalinismo che talvolta circolano in Occidente. Ma con una durezza marcata e programmata, questo sì. La legge che trasforma in «agenti» tutte le ONG che ricevono finanziamenti anche minimi dall’estero, il clamoroso eccesso di severità mostrato verso le Pussy Riot (anche se in questo caso si trattava per il Cremlino di tenersi strette la Chiesa ortodossa e la moltitudine dei suoi fedeli), i processi a pioggia contro dissidenti anche di secondo rango, pochi giorni fa l’inverosimile condanna postuma dell’avvocato Sergej Magnitski che era morto misteriosamente in prigione, e ora il colpo politicamente più significativo, l’eliminazione dalla scena di quel Navalny che era diventato celebre in tutta la Russia definendo «partito di ladri e truffatori» il partito di Putin, che si era candidato a sindaco di Mosca e che non escludeva di candidarsi alla presidenza nel 2018. E poi non dimentichiamo l’altro rivale potenzialmente pericoloso, quel Khodorkovskij che essendo miliardario aveva pensato di finanziare l’opposizione e che in galera ci sta da dieci anni.

Qui non si tratta di comprensibili e non sempre errate contrapposizioni con l’Occidente sulla Siria o sullo «scudo» balistico. E nemmeno dell’ingombrante gola profonda Snowden. Qui è in gioco l’impatto che potrà avere una minoranza sociale (perché di minoranza ancora si tratta) sul futuro relativamente prossimo della Russia. E’ in gioco un movimento che, anche grazie alle paure di Putin e ai suoi eccessi di reazione, può estendersi, fare nuovi adepti e creare una vera sfida al potere del Cremlino. Da ieri Navalny è il suo portabandiera. E da oggi l’Occidente dovrebbe interessarsi il più spesso possibile alle condizioni dell’oppositore condannato, se non altro per avere la soddisfazione di far capire a Putin che si è sparato sui piedi .

Franco Venturini


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