LA STRADA BASSA DELLA FIAT

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Per contro giorni fa la Consulta ha stabilito in sostanza che sul terreno dei diritti acquisiti non si può tornare indietro, per cui una soluzione andrà comunque trovata. A sua volta la presidente della Camera (diciamolo: una delle poche voci alte e forti sortite dalle elezioni di febbraio) ha risposto, parlando nella sua lettera all’ad Fiat, di lavoro da reinventare e ripensare sotto nuove forme e in chiave di innovazione e produttività, decisamente di sì: deve essere possibile.

Sostenendo con le sue azioni dal 2004 in avanti il principio che per produrre come si deve bisogna oggi ridurre i diritti dei lavoratori, principio che la Consulta ha ora bocciato, Marchionne non ha ovviamente inventato nulla di nuovo. Ha deciso di seguire la polverosa strada bassa delle relazioni industriali, progettata e costruita in Usa e nel Regno Unito dai governi Reagan e Thatcher degli anni 80, poi percorsa attivamente in Francia e in Germania anche da governi sedicenti socialisti o socialdemocratici, o comunque con l’appoggio dei partiti così denominati. Si veda, nella prima, la legge sulla modernizzazione del diritto del lavoro, e nella seconda la sequela delle leggi Hartz — dal nome di un ex capo del personale cui il governo ritenne di affidare, nientemeno, che il compito di insegnare ai lavoratori ad essere più responsabili. Il che ha significato accettare senza discutere salari “moderati”, potere e rappresentatività dei sindacati in picchiata, condizioni di lavoro sempre più pesanti.
Parrebbe giunto il momento di riconoscere che la strada bassa delle relazioni industriali è stata una pessima costruzione. Ha compresso in misura iniqua quanto economicamente insensata la quota salari in Europa come in America; ha contribuito a produrre milioni di disoccupati; ha favorito la scomparsa di interi settori produttivi. Peggio che mai in Italia, dove la generalizzazione della ricetta Marchionne a tutto il settore industriale non sarà stata la sola causa, ma di fatto si è accompagnata a crolli paurosi della produzione: in un decennio scarso la costruzione di auto è scesa della metà, non si fabbricano più grandi navi, sono in crisi tessili ed elettrodomestici, l’aerospaziale ha i problemi suoi, la chimica è un nano rispetto a quello che era tempo addietro.
In questo quadro più nero che grigio, che cosa significa reinventare e ripensare il lavoro in chiave di innovazione e produttività, per usare le parole della presidente della Camera? Significa varie cose. Che bisognerebbe smetterla di concepire la produttività come lavorare sempre più in fretta sotto il controllo di un computer, come vorrebbe la metrica Fiat imposta dal cosiddetto accordo di Pomigliano: con il risultato ultimo, osservabile in tutti i comparti produttivi, che nel momento in cui finalmente gli operai lavorano come robot, vengono subito sostituiti da robot nuovi di zecca (come ho ricordato altre volte, l’Italia è da anni il secondo maggior acquirente europeo di robot industriali). La produttività andrebbe invece correttamente vista come valore aggiunto per ora lavorata, un risultato che si ottiene innovando, contando sull’intelligenza dei lavoratori invece che sulla loro disciplinata obbedienza, riconoscendo che nelle critiche che essi ed i sindacati fanno all’organizzazione del lavoro – e perché no ai prodotti – c’è più produttività da ricavare che non imponendo ritmi forsennati di lavoro. Per tacere della ricetta di Henry Ford, che non era precisamente il titolare di un’opera pia, ma all’incirca un secolo fa scoprì una formula che i manager di oggi sembrano avere dimenticato: raddoppiò il salario giornaliero agli operai contando sul fatto – allora puntualmente verificatosi – che essendo pagati meglio potevano acquistare i prodotti che fabbricavano. Al fine di concretare questi contenuti della produttività, la tutela dei diritti di rappresentanza, di parola, di partecipazione dei lavoratori attraverso i sindacati riveste più che mai un ruolo fondamentale.


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