Obama: «Sulla Siria è l’ora delle scelte»

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WASHINGTON – Voce seria, un po’ di retorica, ma nessun impegno immediato sulla Siria, anche se dice che l’ora delle decisioni è vicina. Barack Obama non esce dal suo guscio e neppure l’ultimo massacro imputato alle armi chimiche lo tira fuori dalla linea prudente. Per calmare i falchi — che pure esistono nel suo governo — e le critiche dei repubblicani fa rispolverare le «opzioni militari» ribadendo però che non c’è alcuna intenzione di mandare uomini sul terreno. E intanto guadagna tempo.
Il presidente in una lunga intervista alla Cnn ha spiegato la sua visione del momento. L’uso dei gas «è fatto enorme che provoca preoccupazioni» e pone la comunità internazionale davanti alle proprie responsabilità. Questo però non deve spingere gli Usa a reagire di impulso e per un eventuale ricorso alla forza serve «un chiaro mandato Onu». Inoltre le possibilità di intervento americano «per risolvere la crisi» sono sovrastimate. Anche perché, ha aggiunto Obama sapendo di cogliere l’umore dei connazionali, «stiamo ancora pagando una guerra», quella in Afghanistan. Dunque, il presidente è scivolato via tranquillo, nonostante la sua famosa linea rossa, tracciata il 20 agosto di un anno fa, quando aveva sostenuto che un eventuale ricorso alle armi chimiche avrebbe portato ad una risposta. Nulla di sorprendente, tutto in sintonia con la politica della cautela adottata dalla Casa Bianca e «figlia» delle divisioni esistenti all’interno dell’amministrazione sul «cosa fare».
Giovedì, per tre ore e mezza, i collaboratori del presidente hanno discusso la strategia da adottare davanti ai drammatici sviluppi in Siria, un confronto teso dove sono emerse — di nuovo — le perplessità di quanti temono le trappole mediorientali. Il New York Times ne ha dato conto senza precisare gli schieramenti, ma è noto che i militari sono tra i più decisi nel sostenere che un ricorso alla forza è controproducente. Visto, però, che devono aiutare i politici hanno ritirato fuori scenari aggiornati da oltre un anno. Se — e il se è molto ampio — il presidente volesse agire il Pentagono ha elaborato diversi «moduli». Il primo: attacco per neutralizzare centri di comando e controllo di Assad, con raid aerei e tiro di missili da crociera da parte delle navi in Mediterraneo. Il secondo: azioni per distruggere la minaccia chimica del regime, dunque blitz sugli impianti e le unità che hanno nel loro arsenale i gas (da quelle di artiglieria ai reparti dotati di vettori Scud). Missioni che possono essere eseguite, grazie ai mezzi a disposizione, senza entrare nello spazio aereo siriano. Dunque, ancora cruise. Il terzo: la creazione di una no fly zone per impedire a jet e elicotteri siriani di continuare nella repressione.
Per eseguire un’eventuale operazione il Pentagono dispone nel teatro di navi e di una forza aerea di tutto rispetto. Velivoli ai quali si potrebbero aggiungere altri droni — in Giordania — oltre a quelli già presenti nel sud della Turchia. A manovre aperte potrebbero poi sommarsi quelle «coperte», affidate a piccoli nuclei di commandos in appoggio a formazioni ribelli addestrate dagli occidentali. Di nuovo i giordani hanno offerto alcune basi e favorito la loro preparazione: come segnalava Le Figaro diversi gruppi di insorti, inquadrati dagli alleati, si sarebbero avvicinati a Damasco mettendo pressione ai governativi.
I francesi hanno sollecitato una risposta più ferma al presunto attacco chimico mentre Londra ha espresso la propria convinzione che Assad «stia nascondendo qualcosa». I due governi sono convinti che Assad le armi proibite le abbia utilizzate sul serio. Lo rivelano le informazioni preliminari raccolte sul terreno. L’Onu, invece, chiede ancora un’indagine imparziale (se fosse confermato l’uso del gas, sarebbe «un crimine contro l’umanità», dice il segretario Ban Ki-moon) e Mosca sprona l’amico dittatore a collaborare. Ma il nodo non sono i report. L’intelligence Usa — secondo la Cbs — ha segnalato movimenti sospetti in alcune unità siriane poco prima del possibile attacco. Prove che hanno alimentato il dibattito alla Casa Bianca senza però convincere il presidente a impartire, per ora, l’ordine per la rappresaglia.
Guido Olimpio


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