Ambizioni, inganni e scandali Storia di Jp Morgan, la banca-mito

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NEW YORK — Sembra un tiro mancino della Storia, eppure l’annus horribilis di JP Morgan coincide davvero con i 100 anni dalla morte del suo fondatore, John Pierpont Morgan, l’aristocratico che plasmò più di tutti il capitalismo del Novecento. Nella stessa settimana dell’incriminazione ufficiale di Javier Martin-Artajo e Julien Grout, i trader accusati di avere creato del buco da 6,2 miliardi di dollari per le scommesse sui derivati, un’inchiesta del New York Times rivela che la banca avrebbe assunto figli di alti funzionari cinesi per spianare la strada a investimenti e incarichi in Cina. Tra questi Tang Xiaoning, figlio di un ex dirigente della Banca Popolare Cinese e oggi a capo di una conglomerata pubblica, la China Everbright Group, e Zhang Xixi, figlia di un ex dirigente delle ferrovie cinesi. Se la corruzione, visto il periodo, non può passare dal denaro, a Pechino — come a Roma e New York — un «posto di lavoro» ai figli è diventata un’alternativa anche nella sede della potente banca americana.
Si dirà che proprio il banchiere John Pierpont Morgan, battezzato dal giornalista investigativo Lincoln Steffe «il boss dei boss», è stato l’artefice del primo scandalo finanziario della storia moderna: nel 1896 promise un ingente somma di denaro al candidato repubblicano William McKinley se avesse sconfitto l’avversario William Jennings Bryans, che voleva abolire il protezionismo doganale. L’episodio non impedì tuttavia a Morgan di essere acclamato come salvatore dell’America poco più di un decennio dopo (e ancora oggi), quando, durante «la tempesta perfetta del 1907», convinse i miliardari uomini d’affari di Wall Street e della City a rimettere liquidi in circolazione. Fu così convincente con i londinesi da far sembrare i cinquanta milioni di dollari di John Rockefeller una briciola al cospetto del carico di lingotti d’oro che arrivò dall’Inghilterra (quello si vendicò dopo la morte affermando che in fondo «John non era neanche molto ricco»).
Il banchiere, fondatore nel 1871 insieme ad Anthony Drexel della «Drexel, Morgan & Co», che sarebbe diventata di lì a poco la banca più importante d’America, si era guadagnato la stima dei colleghi con il metodo passato alla storia come «morganization»: prendere aziende sull’orlo del fallimento, ristrutturarle, renderle produttive e accorparle. Nascono così la U.S. Steel Corporation e la General Electric. Attraverso quella che viene presto definita «House of Morgan», crea un impero che controlla i nodi centrali del sistema produttivo ed economico: energia, trasporti, telecomunicazioni.
Un potere che si misura in opere d’arte e gemme preziose. Morgan, uno dei più grandi collezionisti di tutti i tempi, viaggi a parte, trovava conforto dalla depressione solo tra i Leonardo, Michelangelo e le bibbie di Gutenberg (ne possedeva 3 delle 49 copie esistenti nel mondo). A chi si chiede come mai un marchio che è riuscito a cavalcare per più di un secolo le intemperie della finanza e della politica senza perdere onore e prestigio, sia finito «venduto» nella pancia di una «balena londinese», il trader francese Bruno Iksil, può trovare qualche risposta in The House of Morgan , il libro di Ron Chernow che spiega perché la figura del fondatore è fondamentale per capire la finanza di oggi. È lui che inaugura quell’intreccio tra mondo finanziario ed economico che porterà Jp Morgan un secolo dopo a sedere nei consigli di amministrazione di quasi 40 compagnie con 72 mila impiegati e sette miliardi di dollari in asset. Così come è il banchiere a inaugurare quella che Charnow definisce «l’altalena di potere tra Washington e Wall Street»: l’anno della morte di Morgan il presidente Theodore Roosevelt fonda la Federal Reserve per non lasciare a nessun altro, mai più, il potere di salvare o distruggere l’economia di una nazione. Mentre il banchiere convince Londra a finanziare con i bond la fiorente industria al di là dell’Atlantico, la geopolitica del mondo segna una nuova divisione tra «grandi prestatori di denaro» e «grandi debitori». E i suoi figli continueranno la tradizione diventando partner economici di Francia e Germania nel primo Dopoguerra.
D’altronde, fu Morgan a inventare quel gentleman banker’s code che ancora si ritrova nel ceo che sta provando a portare la banca fuori dalla tempesta perfetta di questi anni, quel Jamie Dimon considerato fino agli scandali recenti il nuovo asso della finanza mondiale. La fiducia prima di tutto è stata per decenni lo slogan del fondatore, come quando nel 1912 pronunciò la frase «Non potrei mai prendere bond da una persona di cui non mi fido ciecamente».
È stato il rovesciamento di prospettiva — dalla fiducia alla speculazione — che ha portato un gruppo di spregiudicati venti-trentenni della finanza a mandare all’aria il g entleman banker’s code , sgretolando le pareti di «House of Morgan»? Certo è che non è stata solo la voglia di arricchirsi a spingere brillanti e ambiziosi laureati delle migliori università anglosassoni a scommettere sui derivati. Peter Hancock, Bill Demchak, Blythe Masters e gli altri membri della Morgan Mafia negli anni 90 nei resort di Boca Raton, tra cocktail e bagni di notte in piscina, disegnarono scommesse ad altissimo rischio attraverso complessi strumenti finanziari. Come spiega Gillian Tett, autrice di Fool’s Gold: The Inside Story of J.P. Morgan and How Wall St. Greed Corrupted Its Bold Dream and Created a Financial Catastrophe , quegli yuppie di talento non avevano l’ambizione di diventare banchieri, voleva essere inventori. «Mi piaceva lavorare con i derivati — ha dichiarato Blythe Masters, attuale capo delle commodities della banca — perché richiedono tanta creatività». L’innovazione era entrata nella finanza e loro volevano dominarla. «Tra tutti Jamie Dimon è senz’altro il migliore — ha dichiarato Adam Haslett, autore di Union Atlantic , il primo romanzo sulla crisi economico-finanziaria del 2008 — ma non può sfuggire alla logica del sistema: l’avidità sconfigge la legge fino a quando non viene bloccata con la forza».
Serena Danna


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