Il presidente riluttante e la sindrome Srebrenica

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I sostenitori di un attacco militare americano in Siria per non lasciare impunito l’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad sostengono che anche per il recalcitrante Barack Obama è arrivato il «Srebrenica moment»: la strage di ottomila civili bosniaci trucidati dai serbi che nel 1995 convinse Bill Clinton ad accantonare le sue riserve e a dare via libera all’intervento Usa nel conflitto balcanico.
In realtà 18 anni dopo la tragedia della ex-Jugoslavia, il presidente che nel 2009 iniziò il suo mandato alla Casa Bianca con un premio Nobel per la Pace assegnato in modo quantomeno affrettato, si trova a dover prendere una decisione di guerra assai più controversa e difficile perché nel conflitto siriano non ci sono opzioni positive e negative, ma solo soluzioni cattive e altre ancora peggiori. Ed anche perché stavolta l’opinione pubblica americana è fortemente contraria a ogni intervento mentre le opzioni militari sono assai limitate: non potendo distruggere i depositi di armi chimiche con bombardamenti che rischierebbero di provocare altre stragi, probabilmente ci si prepara a colpire altri obiettivi militari col rischio che l’intervento militare della superpotenza venga alla fine archiviato come un attacco ininfluente ai fini dell’esito della guerra civile. Per tacere del timore di un’altra ritorsione chimica del regime di Damasco che trascinerebbe Obama verso quell’intervento assai più massiccio che ha fin qui cercato disperatamente di evitare.
Un vero «problema infernale» per parafrasare il titolo del libro sui genocidi pubblicato dieci anni fa da Samantha Power, scelta qualche mese fa da Obama come ambasciatore degli Usa all’Onu e che da parecchio tempo, fin da quando era senatrice, è consigliere del leader democratico sui diritti umani. Mai come in questi giorni «Voci dall’inferno» — un libro nel quale la Power critica le incertezze americane nel reagire ai genocidi sostenendo che dal Kosovo al Rwanda i ritardi negli interventi hanno avuto alti costi politici, oltre che umanitari — deve essere finito tra le mani di un presidente alle prese con uno scenario complicatissimo, apparentemente senza vie d’uscita.
Un Obama schiacciato anche dalla divisioni nello stesso schieramento progressista: se i suoi collaborati più stretti — la Power, ma anche Susan Rice, ora è il suo consigliere per la Sicurezza Nazionale — sostengono la necessità di interventi di ingerenza umanitaria fin dai tempi dell’attacco in Libia, per molti altri «liberal» una risposta militare a crisi anche gravissime come quella siriana non è più proponibile: l’America non deve più essere il gendarme del mondo. Su National Interest l’ex senatore (ed ex candidato alla Casa Bianca) Gary Hart, ancora oggi una bandiera della sinistra radicale, scrive che gli Usa dovrebbero esercitare la massima pressione politica nelle sedi istituzionali internazionali. Ma l’Onu, con Mosca che appoggia Assad e Pechino ostile all’intervento americano e indifferente sui diritti umani, non autorizzerà mai un intervento.
Obama sa che attaccare senza un mandato internazionale stavolta è più difficile e che le conseguenze possono essere gravi: quando Reagan provò a colpire Gheddafi a Tripoli si sentiva legittimato dall’attentato libico in una discoteca a Berlino. L’Afghanistan fu la risposta all’attacco di Al Qaeda dell’11 settembre, in Iraq venne costituita un’ampia coalizione internazionale per andare alla ricerca di inesistenti armi di distruzione di massa. In Libia, due anni e mezzo fa, proprio la Rice, allora all’Onu, ottenne il via libera di russi e cinesi a un intervento limitato.
Stavolta è molto più difficile trovare una giustificazione giuridica, una formula di intervento militare efficace e coagulare consenso politico negli Usa e sul piano internazionale. Ma Obama, benché ancora riluttante, si sta convincendo di essere finito su un piano inclinato lungo il quale, man mano che passa il tempo, i costi del non intervento diventano più alti di quelli dell’attacco: dal rischio che la mancata punizione di Damasco per aver superato la «linea rossa» dell’uso di armi chimiche incoraggi l’Iran ad andare avanti col suo programma nucleare a quello di un ulteriore ridimensionamento dell’influenza Usa in Medio Oriente e in Asia centrale. Coi dittatori della regione che trattano l’America come una «tigre di carta», mentre i vecchi alleati sauditi e del Qatar pensano ormai di fare da soli, dal sostegno al «golpe» in Egitto alle «relazioni pericolose» con gruppi che fiancheggiano «Al Qaeda». Così il presidente-intellettuale si sente di nuovo costretto a fare ricorso all’uso della forza.
Massimo Gaggi


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