La scommessa sbagliata dei Fratelli Musulmani

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Il dovere è fermare le violenze, a qualsiasi costo. La necessità è chiedersi qual è il punto da cui tutto ha avuto origine. La fine del regime di Hosni Mubarak, che aveva tenuto saldamente le redini del Paese per 30 anni, adoperando il pugno di ferro, ha liberato una società affamata di diritti e ha dato spazio, dopo decenni di emarginazione e spesso di persecuzione, alla Fratellanza musulmana. In realtà i Fratelli si erano ben guardati dal sostenere apertamente la rivolta di piazza Tahrir, pensando di incassarne in seguito i dividendi politici. Essendo la forza più organizzata, non hanno avuto molte difficoltà a prendere il potere, però con una vittoria alle elezioni presidenziali non certo plebiscitaria. Chiara nei numeri che hanno portato alla presidenza il loro candidato, Mohammed Morsi; assai dubbia se la si considera aderente alle volontà del popolo, che in maggioranza era più interessato a cambiare che a consegnarsi ai Fratelli e a farsi condizionare dai loro elementi più radicali. Come quel leader che, in un’intervista al Washington Times, ha detto che il Ramadan può anche essere interrotto per condurre un «jihad» contro la società egiziana. Siamo lontani anni luce dal pensiero del fondatore della Fratellanza Hassan alBanna, e ben lontani da quell’idea di moderazione (c’era chi pensava: «Macerandosi nell’attesa saranno diventati più saggi») che ha ingannato governi e diplomazie internazionali, a cominciare dagli Stati Uniti, che avevano seguito con comprensione, e anche con simpatia, l’esperimento di Morsi in Egitto, e quello più o meno analogo nella Tunisia del dopo Ben Ali. Ma l’Egitto è il più grande Paese arabo, il suo ruolo è fondamentale, le sue responsabilità immense, e Morsi non ne era all’altezza.
Gli intellettuali più avveduti della Fratellanza gli avevano consigliato una linea flessibile: tolleranza sociale, sostegno al turismo e alla cultura, che sono poi le risorse più preziose di quel grande Paese gravido di storia e — teoricamente — di antica saggezza. Di sicuro, i consigli non sono stati accolti da Morsi e dai suoi collaboratori più stretti, che hanno invece dimostrato la poca avvedutezza di una scommessa sbagliata, e realizzata dando corpo a un Islam politico senza timone. Il raìs, probabilmente malconsigliato, ha scelto una pasticciata intransigenza, sia all’interno, sia all’esterno. All’interno spaventando turisti, finanziatori, intellettuali, banchieri, studenti, istituzioni, economisti, con misure coercitive esiziali. Ancor peggio in politica estera. Il vertice della Fratellanza, pur di ottenere gli aiuti americani (un miliardo e mezzo di dollari all’anno) ha accettato — con poca convinzione — di confermare il trattato di pace con Israele.
Però tra gli integralisti di Gaza e i laici di Ramallah, Morsi non ha avuto dubbi: ha scelto i primi. La Fratellanza e le sue propaggini dogmatiche si erano illuse poi di poter rimpiazzare gli aiuti di chi non accettava l’islamizzazione strisciante della società con i miliardi profumati di petrolio del Golfo. All’inizio sembrava che il cartello dei sostenitori arabi vedesse, avvinti, il piccolo, straricco e ambizioso Qatar al gigante Arabia Saudita. Oggi Doha continua a sostenere i Fratelli musulmani e il presidente Morsi, mentre Riad sostiene i militari e il nuovo governo.
Persino le due più importanti tv globali arabe sembrano seguire i destini polarizzati dell’Egitto. Al Jazeera, la tv del Qatar fondata nel 1996, sembra seguire gli eventi dalla parte dei Fratellanza. Al Arabiya, creata nel 2003 negli Emirati Arabi Uniti con la partecipazione di capitali sauditi, racconta gli eventi spiegando le ragioni dei militari.
È chiaro che gli errori della Fratellanza egiziana avranno inevitabili ripercussioni in tutta la regione. Colpisce e sconvolge l’assoluta mancanza di un progetto politico meditato, maturo e realistico. I Fratelli musulmani non hanno neppure voluto accettare l’idea di essere comunque una minoranza. Forte, con i propri diritti, con i propri obiettivi, ma pur sempre una minoranza che deve quindi fare i conti con una tranquilla maggioranza: quella che alcuni chiamano del «sofà». Cioè degli egiziani che stanno a casa, che sono stanchi di violenze e vogliono tornare a sentire il profumo di quella modesta prosperità che avevano sognato.


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