LE VIGNE DEI RAGAZZI DI OSLAVIA

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OSLAVIA. Ma il vecchio Franz è sempre lì che non molla. In una locanda di nome Peric, in zona Doberdò, me lo vedo davanti quando vado a pagare la mia birra. Lui, l’imperatore, in un quadro a olio dietro il bancone. Ed è solo uno dei tanti segni di un ritorno, fino a ieri inconcepibile, qui sul confine orientale. È tempo che il mio panettiere di Trieste tiene il Kaiser in divisa azzurra sopra la scansia dei filoncini. Ma ora la cosa si ripete anche qui, sotto il naso degli eroi di Redipuglia.
A Poggio Terza Armata, cui ora hanno aggiunto il vecchio nome sloveno di Zdravšcina, in agosto si festeggia il compleanno dell’imperatore, e il ruolo di Franz Josef, su un bel cavallo bianco, è interpretato da un carabiniere, affiancato dalla figlia nelle vesti di Sissi imperatrice e da uno stuolo di figuranti in armi. Il parroco fa gran discorsi sulla pace e la pluralità culturale del territorio e tutti gli insoddisfatti del-l’Italia affluiscono. Gente di sinistra e multiculturali, nazionalisti sloveni e indipendentisti stanchi di Roma ladrona.
L’altra metà della storia riemerge al punto che anche gli “italianissimi” si sono stufati di protestare. A Giassico, Grado, Farra, Ajello o Terzo d’Aquileia — mi raccontava l’ammaliatrice Marina Rossi, storica delle nostre terre — son tutti lì ad ascoltare a bocca aperta i racconti sugli antenati in divisa grigio-azzurra. E a Cormons, sotto le vigne del Collio, si ricordano con infinita nostalgia i tempi in cui la cittadina, a maggio, diventava capitale imperiale delle ciliegie e i mercanti ebrei venuti dal Nord erano così numerosi che nei giorni di fiera un esercito di carpentieri veniva a montare una sinagoga provvisoria in legno.
Passo l’Isonzo a Sagrado, sul vecchio ponte in ferro che sa ancora di carriaggi e battaglioni, e oltre c’è Gradisca “l’austriaca”, dove tuttora i viaggi verso Udine e Venezia si traducono con “Andare in Italia”. Gradisca, col parco che pare Vienna e il teatro che sa di Richard Strauss, eletta a buen retiro da Franco Giraldi, regista de “La frontiera”, il film che meglio spiega le maledizioni di una terra in bilico lungo la storia del secolo breve. Torna, la memoria dei vinti torna testardamente, e più la nascondi più prende forza.
E invece sulla sponda destra del fiume, lungo la strada del Podgora, alle porte di Gorizia, la memoria dei vincitori mi viene nuovamente incontro nel segno del disfacimento. Qui caddero a decine di migliaia — tra loro c’era un affascinante sognatore irredentista di nome Scipio Slataper — ma per arrivare all’obelisco dei Caduti devo seguire una salita invasa dalle acacie, una foresta di alberi pericolosamente inclinati che nessuno pota. Segnaletica evasiva, nessun parcheggio, poco o nulla che dica dove andare. Unica consolazione, gli schieramenti di vigne, ferme sotto un cielo nero e piatto come un’incudine rovesciata.
«Non puoi mancare l’ossario Oslavia» mi hanno detto, il suo bastione dei morti è indispensabile per capire. Dentro, migliaia di soldati italiani e alcuni Caduti austriaci, sepolti insieme nel ’38. Vedo da lontano la sua torre di pietra bianca, alta su Gorizia, alle porte del Collio ubertoso, ma la trovo sbarrata, il cancello alla base della scalinata è chiuso. A Oslavia i custodi dei sacelli (rivolgersi a “Onorcaduti”, Roma) fanno festa tre giorni la settimana, e quei giorni sono sabato, domenica e lunedì. Lo mette bene in chiaro un cartello accanto ai simboli di ferro dell’arditismo, elmetto e pugnale.
Oggi è lunedì e decido di fregarmene. Non saranno i passacarte a fermarmi. Scavalco e salgo la gradinata verso l’immenso torrione, su un tappeto di fiori di acacia. La pietra fascista è ancora intatta. Il disastro è dentro, la cupola di plexiglas che si è voluta aggiungere cinquant’anni dopo, al tempo degli appalti allegri. La copertura è rotta, c’è rischio di crollo, dentro piove acqua ed escrementi di piccione, ma non si aggiusta niente perché si spera in un nuovo appalto per un rifacimento totale. Fatto sta che i soldi non ci sono, e per precauzione l’interno della torre — dove sono visibili i nomi dei morti — è diventato accessibile solo in casi speciali.
Ma sì, siete dei vinti anche voi, cari ragazzi di Oslavia. Agli imboscati di retrovia non importa niente di voi, ma delle loro poltrone. È da ottant’anni che un sistema campa sulle vostre ossa. Da vivi vi hanno spiegato che il nemico era il tedesco, e poi da morti vi hanno detto: contrordine camerati, ora i tedeschi sono alleati e vi rifacciamo una tomba con loro. Da vivi vi hanno promesso gloria e da morti vi hanno chiuso in un mausoleo blindato, per giunta inaccessibile tre giorni su sette.
Meno male che ci sono le vigne, di nuovo loro, tra le colline. Sono in piena fioritura e hanno uno sconvolgente profumo di donna. Le ho già viste attorno a Redipuglia, a Doberdò, e attorno ai piccoli cimiteri austroungarici di Prosecco, Brje, Dutovlje. Come l’albero isolato del San Michele, quei filari sul filo del confine ripetono il mistero della sepoltura- rinascita. Allineamento di croci e vitigni. Croci piantate nel Profondo e protese, come gli alberi, verso il cielo. Quanto sangue nei nostri grappoli.
Oltre il sacrario abita Joško Gravner, un grande taciturno che fa vino come ai tempi di Noè: niente chimica, niente monoculture. Fa fermentare il suo nettare in grandi orci caucasici sepolti in una cantina buia che pare una necropoli. A Castelrubbia, sul San Michele, hanno riattato una cannoniera italiana e vicino, collegata a una caverna, ci hanno scavato una cantina. Stessa cosa Edi Kante, che spacca pietra di trincea per piantarvi le viti della Vitovska e poi tomba le sue botti in un abisso scavato nella roccia viva. O Pino Cherin, che ha trasformato in vigna una dolina che fu postazione di mortai sotto l’Hermada.
Tra un temporale e l’altro cantano come pazzi i merli e le ghiandaie. Che mistero in questa vita che fermenta ed esplode proprio nei luoghi della morte.
(10 – continua)


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