I big e il processo all’Europa: banche ed energia: ora l’Ue 2.0

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Di conseguenza se, come ieri, quello che va in onda a Villa d’Este è un piccolo processo ai signori di Bruxelles il segnale va raccolto e meditato. Del resto prima della prossima edizione del meeting ci saranno le elezioni europee nella primavera del 2014 e tra gli osservatori serpeggia un fondato timore. Non saranno consultazioni elettorali come le precedenti, il rischio che la disaffezione verso l’Europa si traduca in un forte aumento delle astensioni o in performance di liste pirata è elevato. Così come è alta la coscienza, tra gli imprenditori di Cernobbio ma non solo tra loro, che le vere elezioni europee — quelle che decidono veramente qualcosa — si terranno a fine mese in Germania. Nelle urne di Berlino e di Stoccarda si decide quale indirizzo di politica economica prenderà il vecchio Continente e di conseguenza la chiave del nostro futuro sta (purtroppo) nella dialettica che si andrà a stabilire tra i politici tedeschi e i sentimenti del loro elettorato.
Ascoltando gli uomini migliori che l’europeismo ha prodotto, i Trichet, gli Almunia, i Van Rompuy, la prima impressione è quella della trasmissione di un lessico datato. A volte le stesse parole, gli stessi quesiti, persino le stesse battute, tutto sembra di averlo ascoltato l’anno prima o quello ancora precedente. Senza grandi e particolari novità. Si parla molto di “architettura istituzionale europea” e degli inevitabili errori che si sono commessi, ci si interroga pensosi sull’ormai congenita incapacità di mettere in equilibrio «rigore e crescita», ci si concede una pausa di ottimismo visitando i casi di successo di Paesi come l’Austria e la Polonia ma non si fanno mai veramente i conti con il diniego anglosassone di far parte dell’euro e la stessa parola passepartout «riforme» è ripetuta così spesso a mo’ di stanca giaculatoria da risultare svuotata dall’interno. Sono riforme che non incontrano mai le persone concrete e il loro consenso, sono diventate anche loro delle impalcature disegnate solo sulla carta. L’impressione successiva è, per dirla con un’espressione sin troppo facile, che serva un europeismo 2.0, e un accelerato ricambio nelle stanze dei protagonisti di Bruxelles non farebbe male. Il guaio, caso mai, è che i migliori talenti del continente vanno verso Londra e non sono attratti dalla capitale belga.
Per farla breve l’opinione pubblica chiede discontinuità e le élite europeiste faticano a dargliela, sono prigioniere dei loro schemi. Perché come ha osservato Lorenzo Bini Smaghi risultano più attente alle procedure che alla sostanza e così scambiano dei successi di facciata per delle vere soluzioni ai problemi. Così quando il commissario alla concorrenza, lo spagnolo Joaquin Almunia, a Cernobbio finalmente ammette che «la strategia della crescita immaginata prima della grande crisi non è più valida», in tanti in sala si guardano sorridendo e annotano come l’autocritica suoni quantomeno tardiva. Innocenzo Cipolletta sintetizza l’umore e i dubbi della platea con una domanda da un milione di euro: «Non pensate che alla Ue manchi la politica e non l’economia, come dite voi?». E’ chiaro a chi ascolta che Cipolletta per «politica» intende una visione di medio periodo, l’aggregazione di forze per le riforme, una strategia di alleanze internazionali, l’individuazione di priorità settoriali (banche, energia, telecomunicazioni), tutte cose che però agli europeisti tradizionali appaiono troppo complesse.
Risulta più semplice e lineare replicare che molti Paesi devono ancora fare i compiti a casa. E infatti Herman Von Rompuy, il presidente del Consiglio europeo che scadrà a fine 2014, replica seccamente all’economista italiano che «è troppo facile dire che la crisi della Ue è politica». State dimenticando, aggiunge, che l’Italia ha una crescita bassa ormai da venti anni, che Grecia e Spagna sono dei Paesi discoli e che il Portogallo pure. Ma se l’Unione Europea è la mera somma delle virtù di singoli Paesi che ci sta a fare la nomenklatura di Bruxelles? Dove si può rintracciare il valore aggiunto di quella che non a caso, con un termine carico di significati, chiamiamo «comunità europea»? La verità è che in questi consessi manca totalmente un’analisi della società europea, di come sia cambiata negli anni della crisi e di come modernità e arretratezza convivano in una mappa a macchia di leopardo dove accade anche anche che gli spagnoli comprino dagli inglesi un calciatore per la stratosferica somma di 100 milioni di euro. La vita reale del Vecchio Continente non entra nelle mere statistiche dell’eurobarometro, gli intellettuali non parlano con gli uomini dell’economia e l’Europa è un cantiere fermo perché non si hanno i soldi per continuare i lavori.
Dario Di Vico


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