Nell’accampamento dei sopravvissuti «Il viaggio di morte costato 500 dollari»

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LAMPEDUSA (Agrigento) — All’improvviso qualcosa si muove. Il telo di carta si solleva. Dai loculi di gommapiuma spuntano due teste. «Eravate su quella nave?». Annuiscono entrambi. Ragazzi, dalla faccia spaurita. Hanno pagato cinquecento dollari per un viaggio che doveva portarli in Europa e invece li ha lasciati quasi morti, avvolti da questi materassi improvvisati e sporchi, da dove proviene tanfo di urina e feci.
Notte fonda nel Centro di prima accoglienza e soccorso, ma è come se fosse giorno. Non dorme nessuno. Le luci illuminano ogni angolo di questa struttura costruita al centro di una depressione, con le colline che la sormontano da ogni lato. La strada per arrivarci dal paese è segnata dai cocci e dalle bottiglie di birra lasciate dai migranti che ogni tanto escono a prendere una boccata di finta libertà. Li lasciano fare, tanto non possono andare da nessuna parte. È solo uno dei tanti paradossi di questa struttura, che è forse la più importante e citata d’Italia ma da due anni viene abbandonata a se stessa. Da quando i migranti protestarono contro una sosta che stava diventando detenzione e bruciarono un intero padiglione.
I due ragazzi sono con gli altri naufraghi, in una zona che sembra un accampamento, a ridosso di una parete di roccia. La loro prima notte da superstiti trascorre, all’addiaccio, tra parallelepipedi di gomma piuma affiancati uno all’altro. Sono nudi, coperti solo dal telo ignifugo che gli hanno messo sulle spalle quando li hanno ripescati dal mare. Eritrei, vengono da una zona desertica a nord di Asmara. Il primo ha 18 anni, è il più piccolo di otto fratelli, ha un ciuffo di ricci che gli scende sulle fronte. Dice di chiamarsi David Villa, come l’ex attaccante del Barcellona. Quando scandisce quel nome, fa un sorriso complice. Il suo amico invece scrive con grafia incerta «Kijwa» sul taccuino. Parla poco, quasi niente. Ha occhi grandi e spalancati, con dentro una tristezza infinita.
Nella primavera del 2012 hanno attraversato il deserto sdraiati sul fondo di un camion. I genitori avevano pagato il viaggio con tutti i loro risparmi, tremila dollari che loro avevano consegnato nelle mani dei trafficanti. «Non riuscivamo a respirare, c’era gente che piangeva e tossiva. È durata settimane. Di giorno, quando non viaggiavamo, ci legavano. Io ero convinto di morire, non pensavo che ce l’avrei fatta. Il viaggio in nave invece non mi faceva paura. Tra i miei amici, sono l’unico che sa nuotare. Abbiamo vissuto quasi un anno in Libia. Facevamo gli imbianchini, sulle strade. Ci facevano dormire in una baracca di legno dove tenevano i bidoni di vernice». David Villa fa un gesto con la mano. Kijwa interviene per la prima e unica volta. «Botte, tante botte. I libici sono cattivi».
Poche settimane fa arriva il segnale. Il supplizio libico è servito a raccogliere il denaro per l’ultima tappa. Cinquecento dollari. Non sono molti. Quando chiediamo perché nessuno aveva il giubbotto salvagente, a differenza della barca arrivata poche ore prima seguendo la stessa rotta, la risposta è questa: «No money». A decidere tutto, delle partenze, delle loro vite, su quale barca e in quali condizioni, era «The doctor», il dottore. David Villa ne parla con un certo timore. «Mafia», dice. È l’unica parola italiana che conosce, a parte Juventus, Milan e Inter. «Siamo partiti tre giorni fa. Non avevamo niente. Ci avevano dato una tanica da cinque litri d’acqua, ogni tre persone. C’erano onde terribili. Sulla nave non riuscivamo a muoverci». Noi stavamo sopra. Dove c’era il motore ce n’erano altri cento e poi altri cento erano ancora più sotto».
David Villa abbassa gli occhi. «Abbiamo sbagliato». La nave si avvicina alla costa. A bordo nessuno può sapere che quella è la parte più disabitata dell’isola. «Abbiamo cominciato a bruciare delle camicie e delle magliette. Le sventolavamo in aria. Poi la barca ha cominciato a bruciare, c’è stata una esplosione. Sapevamo che da qualche parte vicino a noi c’era l’altra barca partita da Misurata. Aveva viaggiato quasi sempre accanto alla nostra. Molti si sono buttati. Ma non l’hanno trovata». Centoundici, finora, aspettando che il mare consenta di proseguire la conta. Metà delle vittime sono donne. Kijwa ascolta in silenzio, l’espressione sempre più afflitta. «Suo fratello. Altri due miei amici. Li ho visti annegare. In acqua ho pregato, ho implorato i miei genitori, non volevo fare quella fine». Adesso tace anche lui. I due ragazzi eritrei cercavano la Switzerland, che in realtà significa una indistinta Europa del Nord. Volevano studiare, per diventare infermieri.
Chiediamo se hanno un messaggio per i loro genitori. David intona una breve cantilena. Quand’è giorno, nel centro di Lampedusa la facciamo ascoltare a un giovane eritreo. Ce la traduce. Dice così: «C’è stato vento con un’onda grande. Cercate di vivere tranquilli, che noi stiamo bene».
Marco Imarisio


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