«Frode aggravata dal ruolo politico del Cavaliere»

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MILANO — «Il ruolo pubblicamente assunto, non più e non solo come uno dei principali imprenditori incidenti sull’economia italiana, ma anche e soprattutto come uomo politico, aggrava la valutazione della condotta» di Silvio Berlusconi, già zavorrato dalla «gravità» del sistema di frode fiscale sui diritti tv Mediaset di cui tre gradi di giudizio lo hanno ritenuto «ideatore, organizzatore e fruitore dei vantaggi relativi». Perciò, nelle motivazioni la Corte d’Appello milanese ritiene che «non possa attestarsi sul minimo della pena» di 1 anno l’interdizione dell’ex premier dai pubblici uffici quale pena accessoria conseguente alla condanna definitiva per frode fiscale a 4 anni di reclusione (3 dei quali condonati da indulto) pronunciata in agosto dalla Cassazione. E così ieri l’Appello-bis, chiamato dalla Suprema Corte a riformulare la durata dell’interdizione in base alla norma speciale tributaria (appunto da un minimo di 1 anno a un massimo di 3 anni) anziché in base alla norma ordinaria (5 anni fissi, come ritenuto dai giudici del Tribunale e del primo Appello corretti però dalla Suprema Corte), usa lo stesso criterio adoperato dalla stessa Cassazione per la pena principale, e cioè i due terzi del massimo: là 4 anni di reclusione (su 6 possibili al massimo), qui ora 2 anni (sui 3 possibili al massimo) di interdizione dalla politica.
I giudici sgombrano il campo dalla tesi difensiva che prospettava una irrazionale sovrapposizione tra i 6 anni di incandidabilità previsti dalla legge Severino e i 2 anni di questa interdizione penale dai pubblici uffici: hanno «un ambito di applicazione distinto, ben diverso e certamente non sovrapponibile; da un lato le pene accessorie che devono essere irrogate dall’Autorità Giudiziaria e, dall’altro, la sanzione di incandidabilità, discendente dalle sentenza di condanna, riservata all’Autorità Amministrativa». E ai fini della legge Severino, la condanna penale è un «presupposto per la incandidabilità del soggetto o per la valutazione della sua decadenza dal mandato elettorale conferitogli».
La Corte respinge anche l’altra questione di incostituzionalità sollevata dalla difesa per il fatto che Berlusconi non avesse potuto godere delle esenzioni dalla pena accessoria connesse all’adempimento dei doveri fiscali operato fuori tempo massimo (cioè non prima dell’inizio del processo, ma addirittura solo dopo la Cassazione) da una società (Mediaset) nei cui organi decisionali l’imputato (Berlusconi) lamentava di non aver avuto più voce in capitolo. Qui i giudici obiettano che «non può ora l’imputato dolersi del mancato tempestivo pagamento, da parte dei formali amministratori delle sue società, del predetto debito di imposta che ben avrebbe potuto estinguere personalmente». A tacere del fatto che, contrariamente a quanto lasciato rappresentare ai mass media dagli avvocati, «innanzitutto non esiste alcuna prova (neppure allegata) di tale estinzione del debito verso il fisco»: infatti «la difesa di Berlusconi si è limitata a produrre una mera “proposta di adesione” alla “Conciliazione extragiudiziale” formulata solo l’11 settembre 2013, con previsione di rateizzazione dei pagamenti a partire dal 22 ottobre con scadenza al 22 luglio 2016». E «la documentazione della semplice proposta di adesione non è sufficiente, di per sé, per fruire dell’eventuale trattamento premiale».
Luigi Ferrarella


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