Sangue, tiranni e bugie Le ferite del secolo lungo

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Altro che secolo breve, verrebbe da dire: un secolo lunghissimo, interminabile, è stato il Novecento. Con troppe guerre, troppe violenze, troppe crudeltà, persecuzioni, liberazioni e rotture e svolte. È il primo pensiero che viene non appena riemersi dalla lettura del nuovo libro di Corrado Stajano, La stanza dei fantasmi (Garzanti), tali e tanti sono gli spettri ancora vivi, appunto, in cui ci si imbatte nel racconto.
Immaginate alcuni vecchi oggetti rimasti per anni immobili sugli scaffali di una libreria: immaginate che questi oggetti come per magia rompano, improvvisamente, il naturale mutismo delle cose inanimate e comincino a prendere vita e voce, a svelare la propria ragion d’essere, a raccontare la propria storia, a ricordare quel che hanno visto e patito come piccoli frammenti di una vicenda molto molto più grande, quella finita nei manuali scolastici. Una fotografia d’infanzia, un pezzo di legno rosso, il ritrattino di una madre, la riproduzione dell’Auriga di Delfi, una misteriosa lama ad uso veterinario, due schegge di ferro, una mappa della Sicilia rovesciata… Potrebbero anche essere cianfrusaglie da rigattiere, e invece conservano un potente valore evocativo per chi li ha accolti da anni nella propria quotidianità famigliare.
In tutto ciò si sente anche il gusto ludico — infantile — di un bambino ormai cresciuto che continua a collezionare pezzi in disuso, scarti di giochi cui non vuol rinunciare per nulla al mondo. Ma ora Stajano sembra volerli ribattezzare, quegli oggetti, per strapparli all’intimità domestica restituendo loro una dignità, un senso, una funzione nel flusso della grande Storia. E così ogni oggetto libera tanti fantasmi, tante storie; ogni fantasma porta con sé un destino che si incrocia con altri fantasmi, altre storie e altri destini. In quella stanza in cui tutto ciò si anima e riprende vita, come i soldatini di piombo di Andersen, c’è il Novecento di Stajano, ovvero La stanza dei fantasmi , uno spazio fisico necessariamente ristretto (i muri dell’abitazione come le pagine del libro) che si dilata fino a contenere figure, intrecci e universi collettivi. Il romanzo è questo polmone che prende aria dalle epifanie fisiche respirando la storia a grandi boccate, un libro dall’apertura totale, in cui lo sguardo privato sprigiona l’energia di un racconto civile, morale, con una sorta di effetto a elastico, che fa della narrazione un filo che si rilascia e si tende in continuazione.
Si parte dall’immagine di un bambino vestito alla marinara nel cortile di una caserma. Più in là, inquadrato da una cornicetta liberty appesa al muro, c’è suo padre, con altri ufficiali dell’esercito italiano. È papà Stajano, che forse ha ancora negli occhi le atrocità della Grande Guerra, quando è stato ferito gravemente: non può ancora sapere che dovrà affrontare la campagna di Russia e persino la prigionia in un Lager nazista. È da quella piccola foto ingiallita che davanti agli occhi del lettore si materializzano gli spettri di una storia privata che si fa storia pubblica, inscindibili l’una dall’altra.
«I documenti — scrive Stajano — sono soltanto scheletri che vanno nutriti di carne». La carne è il racconto vivo, il suo ritmo cangiante che va e viene tra accensioni autobiografiche, ampi affreschi storici, brani degli autori amati (i taccuini dell’alpino Gadda, i dialoghi concitati del tenente Emilio Lussu…), commento morale, reportage e inchiesta, testimonianza diretta, racconto memoriale e racconto (quasi) d’invenzione, meglio d’immaginazione. Che Stajano sia un grande scrittore lo si vede non solo dallo straordinario controllo stilistico, ma dalla calibrata miscela e dal ritmo della sua satura . Sa tratteggiare i suoi personaggi — un gesto, uno sguardo — con pennellate rapide e sicure. Di suo padre, vecchio militare d’altri tempi, dice: «Passò gli ultimi anni di vita, immobile o quasi, dietro i vetri di una finestra a guardare la strada». Il presidente nazionale della Lega degli studenti greci in Italia «ha poco più di trent’anni e la faccia gonfia di un annegato appena ripescato dall’acqua» (è nel vertiginoso capitolo sui colonnelli, con il suo strascico italiano). Oscar, il fratello del terrorista Walter Alasia, è «di media statura, i capelli rasati, una maglietta, i mocassini, il parlare franco». Stajano è ipersensibile al paesaggio umano e ai suoi segreti, ma anche a quello naturale, per esempio quando mette a confronto le sue due anime, quella materna e quella paterna: da una parte la Pianura padana, «lineare come una tavola pitagorica», il suo «verde ombroso, tra i pioppi, i faggi, nell’umido delle rogge turgide d’acqua»; dall’altra «la terra rossa di Sicilia, disseccata, avida d’acque e il mare color cobalto che dai balconi della sua casa (la casa del padre , ndr), sulla punta estrema dell’isola, pare si possa sfiorare con le mani».
Le ferite della guerra, di ogni guerra, il dolore dei vinti di ogni parte, i tradimenti, la sopraffazione del potere, l’angoscia di una dignità perduta nella violenza del fascismo, ma anche nella brutalità del terrorismo e nella criminalità mafiosa: sono i motivi resistenti, si direbbe le ossessioni, che percorrono il libro di Stajano. Che ne va a rintracciare le ragioni anche lontano nel tempo, nel Seicento, nell’Ottocento, citando le sue fonti, i suoi autori con una precisione da scienziato che mette a frutto le sterminate letture di prima mano, i materiali di una vita e le indagini condotte da giornalista. Ma senza che il giornalista si imponga sulla pagina: qui il proposito è quello di arrivare a sfiorare una verità altra, non quella cronistico-giudiziaria e tanto meno quella storica, spesso già accertate. Qui il narratore non si accontenta delle certezze, ma si insinua nelle pieghe dei fatti aggiungendo domande su domande: chissà…, chissà…, chissà…, è un continuo porsi domande. Perché tutti sanno che cosa rappresentò il truce Farinacci per Cremona (vero fuoco del romanzo, con la Sicilia orientale), ma è dal viaggio che l’autore fa oggi nella sua città che emergono nuove inquietudini e angosce, interrogativi non solo sul passato, ma sul presente. È dal suono di una campanella nell’Istituto per l’artigianato, che un tempo fu la Caserma del Diavolo in cui era piazzata una mitragliatrice di morte; è dallo sciame di ragazze e ragazzi che ne escono allegri; è dal ricordo della madre forte e coraggiosa nel cuore della guerra; è da questi sondaggi fisici e affettivi che emergono tracce, segnali, domande impreviste. Come se il «calderone» della storia fosse ancora un ribollire di punti interrogativi. Ecco che seguendo le tracce del nonno Paolo, nella campagna della Bassa padana, viene fuori uno straordinario racconto di città, tra mercati, resse, rituali, conciliaboli, conflitti, contadini delusi e vittime del servilismo dei proprietari agrari al diktat mussoliniano. Eccoci a Londra, nei giorni più difficili per Churchill; a distanza di settant’anni, eccoci nel suo rifugio segreto, dove «tutto è ancora come fu»; lo sentiamo parlare e ragionare con le sue parole, lo vediamo muoversi cauto, pazientare e decidere. Siamo con lui, mentre intorno percepiamo le bombe che cadono sulla città, sulle chiese, sulle stazioni ferroviarie. Sentiamo la paura e la morte cui contribuì anche la funesta prepotenza del Duce. Eccoci, poco più in là, precipitati nel «nonsipuotismo» siculo raccontato da Tomasi di Lampedusa e infine con un lento zoom ci ritroviamo per le strade concitate della Palermo d’oggi, che ha dimenticato i giorni del maxiprocesso e delle stragi. Un «pellegrinaggio della memoria assassina».
Stajano è fedele all’idea gaddiana della guerra come «cozzo di energie spirituali», fuoco in cui ardono insieme il peggio e il meglio dell’animo umano. E ne va alla ricerca, indietro e in avanti, avvicinandoci agli aguzzini e ai partigiani, ai criminali mafiosi (tra cui spicca il ritratto del pentito Leonardo Vitale) e alle loro vittime. Ma nella stanza dei fantasmi non si stagliano solo gli opposti e gli antagonisti: i paladini del Bene e del Male, della giustizia e dell’ingiustizia, quelli che si sono svenati per un Paese migliore e gli altri che il Paese l’hanno sistematicamente distrutto. Ci sono anche i piccoli innumerevoli fantasmi che, per opportunismo o per inconsapevolezza, hanno abitato in una sterminata zona grigia: quelli che non vedevano e non sentivano. Offrire il proprio passato alle generazioni che verranno, come intende fare questo viaggio tra i fantasmi di ieri e di oggi, è un invito a evitare che le zone grigie, in cui non c’è né memoria né cultura, da comodo luogo in cui abitare diventino un luogo che ci abita.


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