I lealisti premono Ma l’ex premier teme la rottura

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E nella stessa direzione vanno sia la nota del Pd che esclude un rinvio del voto sulla decadenza del Cavaliere da parlamentare al Senato, il 27 novembre; sia la presa d’atto da parte dei suoi legali, che qualunque ipotesi di concessione della grazia «è tramontata». Eppure, ad esitare a prendere atto della rottura sarebbe proprio il Cavaliere, disperatamente a caccia di una via d’uscita. Si insegue la possibilità di dire uniti «no» alla decadenza, anche se non basterà a evitare l’uscita di scena del Cavaliere; e di dire sì alle «larghe intese» di Enrico Letta.
L’unica novità è l’inversione delle parti tra «lealisti» che vogliono la crisi di governo e sostenitori di palazzo Chigi. A mostrarsi più ansiosi di arrivare alla scissione sembrano i primi, mentre i ministri non smettono di additare un accordo, ribadendo la lealtà al leader. Può darsi che l’apparenza inganni e i ruoli non siano così netti. Ma se passa questa immagine, gli oltranzisti hanno perso qualche punto nella guerra tattica con i propri avversari interni. La tesi di una spaccatura cercata e voluta dai seguaci di Alfano contro Berlusconi non è molto sostenibile.
La virulenza con la quale i «falchi» accusano i «ministeriali» di non cercare, in realtà, la pace, ma di pugnalare alle spalle il Cavaliere, fa solo capire come si siano consumati anche i rapporti personali; e quale diffidenza emerga nei confronti di qualunque cosa dica l’ex «delfino» berlusconiano. Un simile atteggiamento, tuttavia, rischia di avere come unica conseguenza quella di rendere impossibile la ricucitura, perché il partito dei «lealisti» l’accetterebbe solo a patto di regolare i conti con chi si è schierato col governo. La prospettiva che il Consiglio nazionale di sabato diventi il palcoscenico di una rissa non è ancora scongiurata. E l’idea di trasmettere un’immagine lacerata del Pdl preoccupa soprattutto Berlusconi: comunque, per lui sarebbe una sconfitta.
Il governo può trarne vantaggio, in parte. Se ci fosse la scissione del Pdl, la coalizione diventerebbe più omogenea. Ma Letta e il Pd dovrebbero affrontare un’opposizione congiunta di Berlusconi e del movimento di Beppe Grillo. E difendere da soli una legge di Stabilità che viene ritenuta inadeguata ed esposta più che nel passato agli attacchi dei gruppi di interesse in Parlamento. Le riserve espresse ieri dalla Commissione europea sulle capacità di ripresa dell’Italia sono indicative. Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ha spiegato che erano note. Ha ammesso, però, che a spaventare le istituzioni di Bruxelles è la massa di emendamenti presentati: un’ipoteca pesante sulla legge di Stabilità. Letta percepisce i malumori del suo Pd. E teme il tentativo del candidato alla segreteria, Matteo Renzi, di alimentarli con lo slogan «no all’inciucio, sì alla chiarezza».
Anche per questo ieri il presidente del Consiglio è andato alla presentazione di un libro con l’ex segretario, Pier Luigi Bersani, avversario di Renzi. Ha respinto le accuse di avere combinato poco. Ha additato «il caos» in cui l’Italia si trovava dopo le elezioni di febbraio e lo «sbandamento del sistema» rivelato dallo stallo pericoloso sulla scelta del capo dello Stato. E rendendo onore a Bersani che si sarebbe «immolato» — ha detto — per far nascere il governo delle «larghe intese», ha rivendicato quanto è stato fatto finora. I malumori, però, rimangono. Le voci di un’operazione centrista in incubazione tra Letta, Alfano e ciò che resta del partito di Mario Monti e Pier Ferdinando Casini li acuiscono: soprattutto a sinistra. Sono scenari immaginari, ma tossici. Possono minare la stabilità più delle minacce dei «falchi» disseminati nella maggioranza.


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