Oltre 11 mila nuovi posti negli asili nido con il taglio della politica nelle Province

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È una sfiancante guerra di trincea, quella che si combatte sul destino delle Province. Una guerra cui neppure i calcoli sui risparmi che si potrebbero ottenere eliminando i soli apparati politici, equivalenti secondo un dossier del ministero degli Affari regionali a 11.300 nuovi posti negli asili nido italiani, afflitti da un deficit drammatico, riesce a imprimere una svolta. Una guerra nella quale un Paese che ha un disperato bisogno di tagliare la spesa pubblica è invischiato ormai da anni, nonostante non ci sia stata una forza politica che non si sia schierata per l’abolizione di quegli enti. E le armi più acuminate sono i numeri che si scambiano i due schieramenti opposti. Da una parte i bellicosi esponenti del partito delle Province, rianimati dalla sentenza della Consulta, affermano che la soppressione produrrebbe un aumento dei costi (tesi cara all’Upi). Un paio di miliardi l’anno, addirittura. L’obiettivo è almeno allungare i tempi della legge del ministro Graziano Delrio per arrivare fino alla prossima primavera, contando che a quel punto sarà impossibile non andare a votare per rinnovare più di 70 consigli provinciali: con il risultato di mettersi al sicuro per altri cinque anni.
Dall’altra chi è determinato a fiaccarne la resistenza, con l’obbligo di far passare prima di Natale quel provvedimento, oggetto di una estenuante melina in commissione alla Camera presieduta dal pidiellino Francesco Paolo Sisto, snocciola dati completamente diversi. A cominciare dai 113 milioni e 630 mila euro stimati dalla Bocconi come costo per le sole indennità degli oltre 4.200 politici provinciali: dai presidenti delle giunte ai consiglieri. Somma che come dicevamo potrebbe essere investita secondo il ministero di Delrio in 11.300 nuovi posti negli asili nido. Oppure nel dissesto idrogeologico del Paese, considerando che lo stanziamento statale per affrontare quel gravissimo problema non raggiunge un quarto di tale cifra.
Ma è niente, rispetto ai risparmi che quel dossier ministeriale ipotizza. Per esempio, le spese correnti amministrative delle Province. Ammontano a 2,3 miliardi: dei quali sarebbero aggredibili un miliardo 335 milioni, considerando che il costo del personale, pari al 43 per cento del totale, non verrebbe toccato: i dipendenti resterebbero in carico alla Provincia, trasformata in organismo non più elettivo con funzioni ridotte, o transiterebbero in forza ad altri enti.
Di più. L’analisi condotta dalla Sose (Soluzioni per il sistema economico), società di consulenza e servizi controllata dal ministero dell’Economia e dalla Banca d’Italia, nel 2012 ha stimato per la spesa di beni e servizi delle Province un tasso di inefficienza pari al 31,44 per cento, calcolando un risparmio possibile di 2 miliardi 612 milioni di euro a fronte di una massa di risorse pari a 8 miliardi 297 milioni. Dalle sole spese per gli organi istituzionali, le consulenze, le collaborazioni e i contratti di cosiddetto «global service» si potrebbero recuperare oltre 553 milioni, considerando una inefficienza addirittura superiore. Pari in questi campi, secondo Sose, al 55,36 per cento.
Per tutta risposta, l’Unione delle Province argomenta che l’aumento dei costi colpirebbe settori nevralgici, come quello delle scuole. Dice l’associazione guidata dal democratico presidente della Provincia di Torino Antonino Saitta che la spesa per riscaldarle, una volta che la funzione venisse trasferita ai Comuni, lieviterebbe del 53 per cento: 424 milioni in più. Opposta la tesi del dossier Delrio, che porta alcuni esempi. Come un paragone fra le scuole gestite dalla nuova Provincia di Fermo e dai Comuni che la compongono: considerando tra l’altro che metà delle scuole «provinciali» si trova proprio nella città di Fermo. Comune che spende per riscaldare i propri plessi scolastici 7,48 euro al metro quadrato contro gli 8,55 della Provincia. La differenza è del 13 per cento, che però sale al 28 per cento se si prende in esame il dato del Comune più virtuoso.
Lo stesso accade anche in altre Province. Quella di Treviso spende per riscaldare le scuole il 22 per cento più del Comune di Vittorio Veneto, quella di Reggio Emilia il 33 per cento più del Comune di Novellara, quella di Milano il 46 per cento in più rispetto a Sesto San Giovanni, quella di Parma il 68 per cento più di Sorbolo… «Se adottiamo lo stesso criterio utilizzato dall’Upi e calcoliamo la media dei risparmi dei Comuni virtuosi», conclude il dossier del ministero degli Affari regionali, «avremo dunque un risparmio medio del 39 per cento corrispondente, rispetto ai costi sostenuti dalle Province nel 2012 per riscaldare tutti gli edifici scolastici, pari a 312 milioni)».
Per non parlare poi dei risparmi indiretti che si conseguirebbero con la riduzione dei livelli amministrativi e la dismissione di un patrimonio immobiliare spesso ridondante. Nonché la probabile (e auspicabile) eliminazione di uno strato di centinaia di società pubbliche spesso funzionali al solo mantenimento di poltrone, quando non inutili o in perdita. Per avere un’idea delle dimensioni di questo aspetto, si consideri che la sola Provincia di Bergamo ha 33 partecipazioni in società di capitali. Mentre la Provincia di Reggio Calabria controlla il 69 per cento della società che gestisce il locale piccolo aeroporto, in grado di accumulare nei dieci anni dal 2001 al 2010 perdite per 27 milioni senza mai chiudere un esercizio in utile.
Sappiamo che l’abolizione delle Province, o almeno la loro trasformazione in «agenzie di area vasta» non può essere la soluzione definitiva di un problema molto più complesso, che riguarda l’assetto di un sistema istituzionale disarticolato, confuso e costosissimo, con inutili duplicazioni e sovrapposizioni di competenze, e un numero assurdo di livelli amministrativi. Ma è comunque un passo avanti ineludibile. Poi si dovrà necessariamente mettere mano a funzioni e ruolo delle Regioni: molto più potenti e agguerrite delle Province .


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