Mandela. L’uomo che scelse di restare in carcere per regalare la libertà a una nazione

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Il suo animale preferito: l’impala, che «supera gli ostacoli con grazia». Era un nobile democratico, alto un metro e 93, l’ultimo gigante del XX secolo.
L’icona della riconciliazione si considerava «un patriota africano». Nato in una capanna a Mvezo, tra le colline del Transkei (oggi Eastern Cape). Il suo nome, Rolihlahla, significa «colui che spezza i rami». Il primo insegnante lo ribattezzerà Nelson. A 9 anni muore il padre. La madre lo conduce nel villaggio vicino, Qunu, sotto l’ala del capo Jongintaba. È lei a spingerlo negli studi. A 21 anni entra all’università per neri di Fort Hare (missionari scozzesi). Studia Inglese, Antropologia, Legge. Adora il ballo e il teatro. Quando Jongintaba decide per lui nozze combinate, scappa con un amico a Johannesburg, procurandosi i soldi vendendo due mucche del capo. Vive nella township di Alexandra, studia a lume di candela. Nel ’43 si laurea per corrispondenza in Legge. Conosce Evelyn. Si sposano nel ’44. Lui ha 26 anni. Studia da avvocato alla Wits, unico nero della classe. Abita a Soweto, mentre il governo bianco fortifica le barriere dell’apartheid: no ai matrimoni misti, sì alla segregazione dei neri. Mandela è eletto capo dei giovani Anc. Con Oliver Tambo apre uno studio legale. Primo arresto nel 1956. Esce dopo due settimane e trova la casa vuota: Evelyn, che non sopporta il suo impegno e i suoi flirt, se n’è andata con i figli (e, ricorderà lui, con le tende). Nella sua vita entra Winnie, che lavora in ospedale, intravista alla fermata dell’autobus. Dopo le proteste per il massacro di Sharpeville (1960) è imprigionato per 5 mesi Assolto, si dà alla clandestinità. Diventa «la primula nera», fonda «la Lancia della Nazione», l’ala militare dell’Anc: azioni di sabotaggio ma non contro i civili. Lo arrestano in auto il 5 agosto 1962, tradito anche dalla barbetta alla Che Guevara.
In suo discorso in tribunale passerà alla storia: «Nella mia vita mi sono battuto contro la dominazione bianca, e mi sono battuto contro la dominazione nera. Ho creduto nell’ideale di una società democratica e libera, in cui tutti vivano insieme in armonia e con uguali opportunità. E’ un ideale a cui spero di dedicare la vita. Ma se necessario è un ideale per cui sono pronto a morire».
Dal 1964 sconta l’ergastolo a Robben Island. Sul braccio il tatuaggio con il numero 466/64. Spaccare pietre nella cava gli procura lesioni agli occhi. Fuori, gli anni ’60 sono il trionfo dell’apartheid. Dentro, Mandela studia la lingua del «nemico», tratta con rispetto i secondini, scrive un’autobiografia a foglietti nascosti nelle scatole dei cerini. Nel 1976 gli è concesso di coltivare dei pomodori, che più tardi rimpiangerà di aver curato più delle sue figlie. Rifiuta la libertà offertagli dal governo in cambio dell’autoesilio al suo villaggio. Passeranno 6 anni prima che lasci Robben Island per la terraferma. Nel 1985 il presidente Botha offre a Mandela la libertà a condizione che rigetti la violenza. La risposta è in una lettera che la figlia Zindzi legge al popolo dell’Anc in uno stadio gremito: «Solo gli uomini liberi possono negoziare: la mia libertà e la vostra non possono essere separate. I will return».
Ritornerà l’11 febbraio 1990: libero dopo oltre 10 mila giorni. I sudafricani scoprono il suo volto ingrigito. Comincia la terza vita di Mandela il riconciliatore. «I bianchi sono nostri concittadini, chi rifiuta l’apartheid sarà accolto nella lotta comune per la democrazia». Nel ’92 Nelson si separa da Winnie, la donna più amata l’ha tradito con un avvocato, è diventata un’estranea. Nel ’93, in tandem con de Klerk, arriva il Nobel per la Pace. Ma in Sudafrica sono giorni di sangue: bianchi contro neri, zulu contro xhosa, voci di colpo di Stato, l’omicidio del giovane leader anti apartheid Chris Hani. Mandela impone la sua linea: niente vendette, «siamo una forza disciplinata per la pace». Dirà l’amico arcivescovo Desmond Tutu: «Senza di lui non ce l’avremmo fatta». Il 27 aprile 1994, 23 milioni di sudafricani per ore in coda ai seggi. Mandela presidente. Quel giorno, parole di Mandela, «una nazione è rinata».
Madiba (l’appellativo viene dal nome del clan) è una star mondiale. Nel 1998, il giorno dell’80esimo compleanno, sposa Graça, vedova del presidente del Mozambico Samora Machel, e con lei vive nel quartiere di Houghton, un tempo riservato ai bianchi, in una casa dove ospita gli oltre venti nipoti e bisnipoti. L’anno dopo, a fine mandato, lascia la politica. Nel 2004 si ritira a vita privata. Con i successori Thabo Mbeki e Jacob Zuma, che lui non considerava eredi, il Sudafrica è scivolato nell’era della disillusione. L’ultimo periodo prima della malattia l’ha passato a Qunu, tra le colline dell’infanzia. Gli sopravvivono tre figlie (i due maschi sono morti, uno per incidente, l’altro per Aids). L’interno della sua casa color pesca, che dà sullo stradone dove passano i camion, l’ha voluto identico alla villetta del carcere di Paarl dove passò gli ultimi due anni di prigionia, che considerava «tra i più belli» della sua vita.


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