No all’impeachment, quando Cossiga ringraziò Napolitano

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Rievocano l’ultima incendiaria stagione di Francesco Cossiga per usarla contro di lui. Lo dipingono come un suo storico e giurato nemico che oggi però starebbe scivolando sulle stesse «prassi irrituali», «forzature», «interferenze», «esorbitanze dai poteri» e «giochi politici» che si era concesso il Picconatore una ventina d’anni fa. Così, ricordano la prova di forza aperta tra la primavera del 1991 e l’inizio del ’92, quando il Pds, dopo una lunga gestazione, preparò un dossier di quaranta pagine per la messa in stato d’accusa di quel presidente della Repubblica che, con una traumatica profezia della catastrofe irrigata da durissime e asfissianti esternazioni («vi prenderanno a pietrate per le strade», ripeteva ai leader di partito, compreso il proprio) aveva messo il sistema sotto stress — e quasi in torsione — facendosi in prima persona patrocinatore di una vasta riforma della Carta costituzionale.
L’iniziativa presa allora da Botteghe Oscure fu archiviata dal Parlamento al termine di un esame trascinatosi fino all’11 maggio 1993, quando al Quirinale c’era già da un pezzo Oscar Luigi Scalfaro. E ora, per una sorta di straniante legge del contrappasso, un certo fronte politico-mediatico recrimina che anche Giorgio Napolitano avrebbe tracimato dagli argini costituzionali e sarebbe meritevole di impeachment. Con un destino che dovrebbe quindi ricalcare quello di Cossiga.
Pretesa che poggia su basi più che fragili, costituzionalmente inesistenti, lanciata dal circuito Movimento 5 Stelle—Fatto Quotidiano . Ma su cui soffia aggressivamente pure Forza Italia, nella speranza di alzare il più tossico dei polveroni. In modo da intimidire il capo dello Stato, condizionarne i passi (in vista di un impossibile salvacondotto per il Berlusconi decaduto da senatore?), spingerlo a sloggiare dal Colle dopo averlo pregato con il cappello in mano, appena otto mesi fa, di concedere il bis.
Un pressing incrociato che si alimenta di ricostruzioni spesso confuse e distorte, come minimo approssimative e in qualche caso platealmente fuorvianti, per Napolitano. Insopportabile, per lui, passare alla stregua di un irriducibile avversario ideologico del vecchio presidente scomparso un paio d’anni fa. E, in quanto tale, congiurato di spicco in quel «partito trasversale» che avrebbe voluto far processare Cossiga per attentato alla Costituzione e spodestarlo.
Altro che fedeltà con la rigida disciplina imposta dal vertice dell’ex Pci. Napolitano fu tra i pochi a contrastare la linea più aspra scelta dal Pds. Certo, era anche lui colpito e sotto choc per le devastanti provocazioni del Picconatore, e non a caso sottolineò che «al Quirinale si era totalmente smarrito il senso della misura». Tuttavia indicò le dimissioni come la via d’uscita che avrebbe salvaguardato di più la saldezza di un sistema se non sabotato, di sicuro ferito. Con Emanuele Macaluso, Gianni Pellicani e Umberto Ranieri — la corrente riformista, cosiddetta dei «miglioristi», di cui era leader — spinse per quella soluzione. Pagandone un prezzo rispetto ai compagni di partito. E lo stesso Cossiga glielo riconobbe. Lo dimostra una lettera chiarificatrice finora inedita che Maurizio Caprara, suo portavoce in questo nuovo mandato, ha fatto avere al Corriere proprio per sgombrare certe intossicate letture.
Il contrasto su quella decisione — «presa non collegialmente» — il capo dello Stato lo aveva sintetizzato nella propria Autobiografia politica , pubblicata da Laterza nel 2005, quand’era da poco tempo senatore a vita e non ancora eletto al Quirinale. Rammenta in quelle pagine Napolitano: «Non eravamo d’accordo con quella esasperazione, in termini istituzionali, della polemica con il presidente della Repubblica… ma nessun dissenso politico poteva giustificare il protrarsi di quella campagna di deformazioni e insinuazioni contro noi riformisti».
Cossiga, che dei travagli interni di Botteghe Oscure sapeva molto, dimostrò di non considerare «in alcun modo tendenziosa o ostile la posizione» tenuta all’epoca dall’attuale capo dello Stato. «Caro Giorgio», gli scrisse tra l’altro il 2 novembre 2005 l’ex picconatore, «ho molto apprezzato il riferimento al dissenso dell’area riformista del Pci su episodi che hanno dolorosamente coinvolto la mia persona. Ma alcuni che dissentivano da te, si sono ricreduti…». E chiuse la missiva con un auspicio affettuoso, che aveva il sapore del presentimento: «Mi auguro che il centrosinistra (anche con il trattino) ti valorizzi! Ma perché non eleggerti capo dello Stato? Io ti voterei!!!».
Marzio Breda


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