Genova, la nuova polveriera d’Italia dove muoiono i sogni e il futuro non arriva

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GENOVA. A GENOVA il vento gira all’improvviso, la brezza del mattino a sera è già tempesta e così pure gli umori dei genovesi. Nell’Italia dei «mille forconi» dipinta da Ilvo Diamanti questa è ormai la capitale.
NON Roma, neppure Milano o Torino, ma l’altera, distante Genova. La mappa del mugugno è diventata un inverno dello scontento. Un mese fa lo sciopero dei trasporti, cavalcato da Beppe Grillo in persona, ha paralizzato la città per una settimana e alla fine ha vinto. Contro ogni pronostico ragionevole, come spiega Sergio Cofferati, genovese d’adozione. «In una vita da sindacalista non avevo mai visto nulla del genere. Se esistesse un manuale sindacale, quella degli autotrasportatori genovesi figurerebbe come esempio perfetto di lotta sbagliata. Uno sciopero a oltranza di questo tipo produce un costo alto per chi lo fa e un danno incalcolabile per i cittadini che lo subiscono. E invece i genovesi si sono schierati con loro e li hanno sostenuti fino alla vittoria, tale ormai è il livello d’insofferenza». La città è una polveriera dove basta una miccia, anche solo una giornata di maltempo,
per scatenare la guerra delle categorie in ogni angolo della città, il centro storico o le periferie industriali, il porto o lo stadio, i carruggi o le strade di Sampierdarena, dove da mesi si combatte una guerriglia fra gruppi d’immigrati, coltello alla mano, ciascuno con le proprie insegne, come in un palio sanguinoso. Gino Paoli descrive il funzionamento della sua città come quello di un motore: «Ha quattro fasi, aspirazione, compressione, espansione e scarico. La compressione può durare anni, ma alla fine lo scoppio è rovinoso».
Si può liquidare la faccenda come la solita, periodica esplosione di un mugugno secolare, oppure considerarla il baricentro di un nuovo terremoto politico. Perché se Genova non sarà magari più «il sismografo ultra sensibile del vasto mondo», come scriveva Fernard Braudel, rimane pur sempre uno straordinario laboratorio politico nazionale. Qui sono nati l’unità d’Italia e il movimento operaio, la resistenza al fascismo, le rivolte degli anni Sessanta, i movimenti no global col G8 e in ultimo l’inedito esperimento di un partito nato in Rete e diventato il primo d’Italia, il Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo è un Cola Di Rienzo in salsa di pesto, nel suo stile c’è molto del millenario ribellismo genovese, che fa ridere al principio e alla fine fa paura. Molto genovese è l’ideologo del movimento, Paolo Becchi, esimio filosofo del diritto con sfumature faustiane che a me ricorda il professor Unrath traviato da Marlene Dietrich. Per dire un professore che ha trascorso la vita nelle biblioteche, pubblicando saggi raffinati e un po’ astrusi, ma alla fine s’è innamorato dell’angelo azzurro della protesta e ora viaggia per l’Italia arringando folle di studenti con colpi di «vaffa » ogni tre parole. Anche sulla sua città ha una visione piuttosto tranchant, eppure interessante: «Genova ormai è un pezzo di profondo Sud innestato nel Nord, uno specchio di contraddizioni. Si vive come a Palermo, ma a un passo da Milano. I treni fanno schifo, gli ospedali meglio lasciar perdere, la città è piena di poveri che mendicano, le infrastrutture fanno pena e le mafie imperano ». La diagnosi finale di tanti mali può aver risentito delle recenti visite del professore al santuario di Arcore. «La colpa di tutto è del Pd, che è il problema di Genova e del Paese. Qui hanno in mano tutto da anni e non lo fanno funzionare se non per i propri interessi. Burlando ha più potere dei dogi, controlla tutto, dal porto alle fondazioni bancarie. La struttura del partito è forte come il Pci d’una volta e il risultato è un disastro sociale e una città di ingiustizie».
Sarà vero, sarà falso, sarà magari troppo semplice, ma è certo che da una città in mano alla sinistra si aspetterebbe una maggior attenzione alla sofferenza. Non è servito neppure eleggere sindaco una persona perbene, intelligente e indipendente come Marco Doria, ormai prigioniero di una burocrazia assurda: «Un conto è studiare per una vita la storia e i problemi di Genova e avere un’idea per affrontarli, altro è smuovere la macchina dell’amministrazione da antichi vizi», ammette il sindaco. Ma è anche vero che, sotto le raffiche della protesta, chiunque fosse al posto dei governanti di oggi sarebbe nel mirino. La rivolta di Genova è come nel resto d’Italia la spia di una sfiducia totale nelle istituzioni e anche di un’anomia cupa nella quale galleggia una società senza padri. Nella vita della città e dal taccuino del cronista sono spariti in pochi anni nomi e figure che erano le bussole di Genova. L’ultimo ad andarsene è stato Don Gallo e prima di lui Paride Batini, leggendario capo dei camalli, il grande Edoardo Sanguineti e anche don Baget Bozzo, il più acuto ideologo della nuova destra. Tanti pezzi di anima e di storia cittadini che scompaiono senza eredi. E per alberi secolari che cadono con fragore, non si vedono in cambio crescere foreste all’orizzonte.
Il problema di Genova, Italia è il non avere futuro, un progetto, una visione. Il porto, ormai la più grande fabbrica d’Italia, ha raggiunto il massimo livello d’espansione.
Gli affari vanno bene, ma per fare il salto, entrare in concorrenza con Amsterdam o Amburgo, bisognerebbe allargarsi e i soldi non ci sono, vanno tutti in tasse a Roma. «Basterebbe che ci lasciassero il 4 per cento per reinvestire e saremmo felici», lamenta il presidente Luigi Merlo. Ma neppure quello rimane e così accade che, per mancanza di spazio, le navi in manovra abbattano le torri di controllo, come nel maggio scorso.
L’altra storia di futuro mancato si chiama Erzelli e il progetto di polo tecnologico. Quante volte abbiamo sentito la storia della Silicon Valley d’Italia? Viene tanta voglia di crederci sempre, in un Paese che è l’unico fra i ricchi del mondo a tagliare fondi alla ricerca da anni e ad alimentare la fuga dei cervelli, il solo dove un premio Nobel (Carlo Rubbia) può impiegare vent’anni per ottenere una cattedra universitaria. La Silicon Valley sulle colline genovesi con vista Portofino sarebbe la ricompensa di tanto declino, ma non è vero. Non ancora. Domani chissà, forse. Se l’università di Genova accetterà di trasferirsi, come hanno già fatto Ericsson e Siemens. Se si troverà il modo di tradurre gli splendidi progetti dell’IIT (Istituto italiano di tecnologia) di Genova, dalle macchine per far camminare i paraplegici alle badanti robotizzate, in realtà scientifiche e industriali. Per ora tocca accontentarsi di fantastici scenari dipinti da un industriale capace e visionario, Carlo Castellano, che sogna di far partire da Erzelli e da Genova «la nuova rivoluzione industriale italiana, come fu già nell’Ottocento ». Bisogna avere fede nelle magnifiche sorti e progressive della ricerca italiana, garantite da Stefano Cingolani, il presidente dell’IIT, ovvero «Il MIT italiano », il quale vanta a ragione d’aver invertito la tendenza alla fuga dei cervelli, con il rientro di molti ricercatori, ma è a sua volta criticato da mezza comunità scientifica nazionale per la scarsa produttiva dei grandi investimenti ottenuti.
Chi crede e ha fede è l’uomo più potente della città, il doge Claudio Burlando, presidente uscente della Regione («ma uscente davvero, non mi candido più»). «Bisogna fare per l’economia cittadina quello che si è fatto vent’anni fa per la cultura e il turismo col progetto del porto antico di Renzo Piano. Un grande scatto in avanti, come fu l’Acquario, oggi può essere rappresentato dal polo tecnologico di Erzelli e naturalmente dalla crescita del porto, con migliori collegamenti ferroviari, il terzo valico anzitutto». I dubbi e gli ostacoli burocratici rimangono molti, così come gli interrogativi. Fra questi, il mistero per cui in nessun dei progetti futuri di Genova figuri il nome del genovese oggi più famoso nel mondo, Renzo Piano, nonostante il successo dell’Acquario.
Nella storia di Genova i sogni, le visioni sono importanti come gli accadimenti reali. «Trafficanti di sogni» chiamava i genovesi Don Gallo, nella sua ultima apparizione pubblica al teatro Archivolto. L’Archivolto stesso è un sogno, un grande teatro stabile in una periferia degradata metropolitana, e continua a vivere nonostante la miseria dei contributi statali. In attesa di un domani splendido che non arriva, i genovesi fanno i conti con un passato di occasioni perse, a cominciare dal fallimento delle partecipazioni statali, e con un presente crudele. Forcone alla mano, la capitale delle mille proteste si prepara a un altro anno difficile, forse quello della quarta fase, l’esplosione.


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