Il ministero taglia gli Istituti di cultura

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La spending review non risparmia neanche gli Istituti culturali italiani nel mondo. In tempi di tagli il ministero degli Affari Esteri ha annunciato la chiusura di una serie di Istituti (prima si era detto undici, poi sono diventati dieci, ora – notizia di ieri – pare siano scesi a otto), motivando il provvedimento, che comprende anche quattordici sedi fra consolati e ambasciate, con il bisogno di “riorganizzare la rete diplomatica-consolare”. Di certo nella lista degli Istituti compaiono soprattutto paesi europei: Lione, Lussemburgo, Stoccarda, Wolfsburg, Francoforte, Salonicco. A cui si aggiungono Ankara e Vancouver, mentre le basi di Grenoble e Innsbruck di fatto già non sono più operative. E Strasburgo, snodo essenziale in Europa, che fino a qualche giorno fa era tra i sommersi, oggi invece passa tra i salvati, insieme a Washington e Copenhagen. Ma l’elenco non è ancora ufficiale e chissà non ci siano altri ripensamenti.
Colpisce il fatto che il provvedimento arrivi proprio alla vigilia della presidenza del Consigliodell’Unione europea, prevista nel secondo semestre del 2014. Eppure il ministero sembra proprio in questa fase orientarsi verso est e, interpellato da Repubblica, fa sapere di voler aprire un’ambasciata d’Italia in Turkmenistan e consolati generali in Cina e Vietnam e di puntare sui paesi del Golfo e in generale sull’Asia centrale. Mercati considerati evidentemente più interessanti di quello europeo. Il vice ministro per gli Affari Esteri Marta Dassù ci anticipa quanto troveremo scritto per esteso nel documento “Farnesina 2015” di prossima pubblicazione: «Premetto che la diplomazia culturale è decisiva, come strumento di politica estera. Una serie di leggi ci impongono di razionalizzare la rete delle ambasciate, dei consolati e degli istituti di cultura, riducendo il numero degli uffici esteri. Il risparmio esiste, naturalmente. Ma non è l’unica motivazione. Questa razionalizzazione permette di concentrare le risorse degli Esteri, in assoluto ormai molto scarse, su un numero di sedi strategiche». Ma cosa accadrà nel nostro continente? La prima funzione di un istituto culturale è diffondere la cultura italiana all’estero, aiutare a farla conoscere. Il vice ministro Dassù difende la razionalità economica e politica del provvedimento: «Il principio è quello delle economie di scala. In prospettiva, meglio avere un solo, grande istituto di cultura per paese che una miriade di piccoli centri senza mezzi».
Ai direttori degli Istituti in via di sparizione, la questione risulta però meno chiara. I costi innanzitutto: i tagli degli Istituti assicurerebbero un risparmio totale di meno di un milione di euro l’anno, costando ognuno una media di 100 mila (Lussemburgo ne costa 80 ma riesce a guadagnare tra corsi sponsor e concerti 25 mila euro, Copenhagen riceve 132 mila euro di contributi statali, Salonicco 18, Stoccarda circa 100, Francoforte 110, Wolfsburg 100, Vancouver 142, Strasburgo sui 100, Ankara 192, Lione 122, dati del 2012). Certo, forse è vero che non tutti gli Istituti riescono a impiegare al meglio le loro risorse. Alcuni non hanno un edificio proprio e, dovendo pagare l’af-fitto, hanno un budget minore da investire, come Wolfsburg (70 mila euro annui di pigione e 30 mila per le spese di gestione nel 2012), Ankara (che però dichiara un tasso di autofinanziamento del 34% nel 2012) o Lione (nel 2013 un guadagno, nonostante le spese, intorno ai 25 mila euro e 90 eventi organizzati). Tanti Istituti hanno prodotto eventi interessanti, ospitando mostre d’arte e rassegne culturali di libri, cinema, teatro e organizzando corsi di lingua italiana, fonti effettive di guadagno. Stefano Benni, che è stato spesso invitato da molti Istituti di cultura italiana, li difende: «Posso ricordarne alcuni mal diretti, con direttori scelti per motivi politici e non per competenza. Altri gestiti in modo mondano e clientelare per pubblicizzare e far lavorare mogli e mariti e parenti. Ma nella maggior parte dei casi ho incontrato persone appassionate, che con pochi soldi cercano di raccontare la cultura italiana al mondo, combattendo i luoghi comuni che solo in parte meritiamo».
Nel mondo ci sono in tutto novanta Istituti Italiani di Cultura (IIC), che costano allo Stato intorno ai 10 milioni di euro annui (a cui vanno aggiunti i costi del personale, circa 200 mila euro a Istituto). Fra un po’ di giorni saranno ottantadue. Fino a ieri pareva dovesse finire al macero perfino Bruxelles, sede delle più importanti istituzioni dell’Unione Europea. Poi il pericolo è rientrato, anche se pare che ci sia in ballo il progetto di vendere l’edificio in cui l’Istituto ha sede e nelle cui aule si tengono circa 106 corsi l’anno per un totale di 3 mila ore di lezione e più di 1.100 studenti. Corsi che rendono 180 mila euro annui, a cui ne vanno aggiunti 20 mila guadagnati con gli eventi (179 nel 2013) e 100 mila ottenuti dagli sponsor. Bruxelles riceve dallo Stato poco più di 200 mila euro l’anno.
Nel frattempo iniziano a reagire scrittori e intellettuali. In difesa dell’Istituto di Lussemburgo è stata scritta una lettera al presidente del Consiglio Enrico Letta da parte dello scrittore Jean Portante, insieme a Claude Frisoni ed Enrico Lunghi, direttore del Museo d’Arte Moderna. E in soccorso di Copenhagen hanno scritto una lettera a Napolitano i docenti di Italianistica dell’università cittadina. Forse, cifre alla mano, bisognerebbe valutare bene il rapporto costi benefici di ogni Istituto e salvare quelli che rendono, con in mente tre parametri chiari: eventi organizzati, iscritti ai corsi e profitti.


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