L’uomo che dietro le sbarre ha messo anche la mediazione

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Anzi, è uno strazio. Pensare che tanti non vedono l’ora di lasciare queste mura. Fumagalli no: è un uomo per cui la dedizione non ha limiti d’età. E i suoi occhi chiari lo dicono con un sorriso triste: «Io non me ne andrei mai». Ma la pensione è una barriera crudele.
A otto anni era già lontano da casa, perché i genitori lo mandarono a studiare dai Salesiani, lui bergamasco cresciuto a Genova, in San Pier d’Arena. Da allora non è più tornato in famiglia ed è probabile che il carcere di San Vittore, dal gennaio 1979, sia diventato un po’ la sua casa. A quell’epoca, quando cominciò, gli educatori erano guardati con sospetto sia dalla polizia penitenziaria sia dai detenuti. Corpi estranei, inutili, ingombranti. «Chiesi di restare qui solo perché avevo una fidanzata nel Varesotto, ma stavo in ufficio con i miei due colleghi educatori senza trovare un senso. Quando entrammo, fummo chiamati dal maggiore: ad ascoltarci c’era un corpo di agenti di polizia sull’attenti. Carichi di letture dopo i corsi di formazione teorica, cominciammo a presentarci con discorsi assurdi e credo che nessuno capì niente…».
Era il tempo delle bande della mala, Vallanzasca, Turatello, rapine, i primi sequestri calabresi, i primi giri di droga, poi il terrorismo, l’immigrazione… «All’inizio degli 80 il carcere era ancora segnato da certe figure carismatiche di detenuti: si respirava la loro presenza. Ricordo che passavo le giornate seduto nel mio ufficio, in preda all’angoscia e al senso di inutilità». Gli fu diagnosticata la sindrome di burnout, che colpisce chi vorrebbe aiutare ma non trova risposte adeguate allo stress che consuma. «Per disperazione soffrii anche di alopecia… Ogni tanto arrivava qualcuno dei detenuti per esplorare… Ho conosciuto Spedicato, autista e luogotenente di Turatello, era un boss che girava seguito da uno stuolo di gregari… Venivano per “assaggiarmi”, per capire come la pensavo su certi temi… Era un carcere vecchia maniera, in cui era difficile dialogare e noi venivamo percepiti come figure di disturbo più che di aiuto».
Poi le cose a poco a poco cambiarono. Fu una lunga fase di passaggio di cui Fumagalli va fiero come se quelle conquiste faticose valessero una vita intera. La sua. «I primi tempi se andava bene eravamo assistenti volontari di detenuti per furto, niente di più: toccava al cappellano, il bravo don Giorgio, gestire tutto. C’è voluto molto lavoro e impegno per guadagnare considerazione e sostituire in qualche modo la figura del cappellano, a parte nella cura dell’anima». La svolta avviene nel 1986 con la Legge Gozzini, che punta sulla funzione rieducativa del carcere e favorisce la smilitarizzazione interna: dall’imperativo primario del controllo si passa ad approfondire la conoscenza e il contatto. Fumagalli segue le rivolte, vive gli anni del terrorismo quando «i raggi erano gestiti più dai detenuti che dalla polizia». Ricorda la lunga direzione «illuminata» di Luigi Pagano e il lento riconoscimento del ruolo educativo, che sarebbe diventato centrale per l’equilibrio del carcere: corsi vari di formazione, attività di intrattenimento, arte e terapie, biblioteca… E soprattutto una parola chiave: mediazione, che nasce dal dialogo. «Venivamo quasi tutti da storie personali di sinistra: per noi il detenuto era buono e il poliziotto cattivo. Pensa che bischerata!». Ride, Gianni.
Sorride pensando a come l’esperienza l’ha cambiato: «Ci sentivamo superiori agli altri, specialmente alla polizia… Col tempo ho imparato che contano le sfumature tra il bene e il male, l’accettazione, il rispetto dell’altro, la disponibilità all’ascolto senza preconcetti, e senza mai forzature… Qui da noi ci sono detenuti che entrano dalla libertà, gente che non ha mai sperimentato il carcere: il che significa che hanno interrotto ogni legame affettivo e familiare e devono superare lo scoglio di questa realtà nuova». Fumagalli conosce bene i suoi compiti: dare informazioni utili sulla vita quotidiana, tutelare la salute dei carcerati, non aggiungere ulteriori sofferenze alla reclusione, favorire i rapporti con i familiari, dare sostegno nel prefigurare un futuro «fuori».
«Il lavoro d’equipe — dice Gianni — un tempo non esisteva, oggi invece su un caso ci si scambia informazioni, affrontandolo in gruppo da più punti di vista». Non tutto è sempre andato per il verso giusto, naturalmente. Gianni ricorda la delusione quando attorno al ’90 aveva avviato un percorso di responsabilità con il tossicodipendente Franco: ne era nato un rapporto stretto di fiducia reciproca, di amicizia. «Mi giurò che una volta fuori non sarebbe ricaduto nell’errore e io ne ero sicuro. Dopo qualche anno l’ho rivisto in carcere… È stata una botta al cuore». Racconta del giorno in cui dovette togliere il bambino a una madre per consegnarlo a una comunità: «Quella donna ebbe una reazione bestiale, struggente. Il fatto è che a volte devi vincere una parte di te che dice che quel che stai facendo, cioè seguire la regola, è assurdo. Devi mediare tra i tuoi sentimenti e un mondo di contraddizioni, il che significa masticare parecchio amaro. Ma questa è la mia vita, non potrei fare altro che incontrare, conoscere e favorire l’incontro… I primi anni dicevo: appena posso, scappo da qui e così mi salvo. Oggi farei di tutto per non andarmene».


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