Partitini e partitoni

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 Via via che si avvicina il momento della verità, la corrida intorno alla legge elettorale diventa più confusa, in un crescendo di tecnicismi che disorientano il cittadino. Tuttavia l’opinione pubblica su qualcosa ha le idee chiare: vuole un sistema capace di decidere, in cui la classe politica si prenda le proprie responsabilità.
A Beppe Grillo non è piaciuto, ad esempio, il sondaggio della Ipsos da cui emerge che gli italiani gradiscono un sistema elettorale nel quale maggioranza e minoranza siano ben distinte e nettamente percepite come tali. Ma non è certo una novità di queste settimane. Anni di immobilismo, sotto l’ombrello di un mediocre bipolarismo e di una fittizia Seconda Repubblica, hanno creato un tale disorientamento che la sola idea di un modello rinnovato ed efficiente suscita i sussulti e le speranze registrati dai più recenti sondaggi.
Renzi e Berlusconi – soprattutto il primo, come è ovvio – hanno colto questo stato d’animo diffuso, ricavandone una sorta di viatico implicito ad andare avanti con la riforma. Ma è chiaro che in realtà i sondaggi non esprimono l’approvazione di uno schema, il cosiddetto Italico, che non è ancora definito nei suoi complicati aspetti. Esprimono soprattutto un sentimento, uno slancio morale: agli interpellati piace una legge elettorale in grado di far camminare l’Italia, senza le estenuanti ambiguità sofferte fino a oggi. Ed è inevitabile che le trattative di queste ore in Parlamento appaiano all’opinione pubblica come una lotta fra conservatori e riformatori. Fra difensori a oltranza del vecchio proporzionale e fautori di un maggioritario senza veli. Fra «partitini» e «partitoni». In effetti, è così.
Eppure non hanno torto alcuni dei frenatori. Come il vendoliano Migliore, secondo cui «noi non stiamo difendendo un piccolo partito, ma un principio di democrazia e trasparenza» (allusione agli sbarramenti e alle liste bloccate). Oppure come Sacconi, del Nuovo Centrodestra, il quale mette l’accento sulle carenze di un processo che dovrebbe condurci nella Terza Repubblica e invece offre solo alcuni spezzoni di riforma costituzionale (il Titolo V, l’abolizione del Senato). Quando invece un sistema maggioritario e monocamerale avrebbe bisogno di un serio meccanismo di pesi e contrappesi, nonchè dell’elezione diretta del capo dell’esecutivo.
Queste obiezioni sono senza dubbio strumentali, dunque funzionali alla battaglia che sta per cominciare davanti alle Camere. Ma non sono prive di logica. Il riformismo di Renzi è coraggioso, ma il progetto del giovane leader è tutt’altro che completo. È vero che non si limita alla riforma elettorale, tuttavia il disegno costituzionale è a macchia di leopardo. Per cui alla fine si rischia di avere un assetto politico-istituzionale sbilanciato. Materia per la Consulta.
Quanto a Berlusconi, la sua rivendicazione («queste sono le nostre riforme, sono vent’anni che le proponiamo») è ben poco convincente. Sembra un tentativo di evitare che il «renzismo», fenomeno peraltro di notevole fascino agli occhi del capo di Forza Italia, diventi un’idrovora elettorale capace di risucchiare i voti del centrodestra. In verità il ventennio berlusconiano presenta un bilancio fallimentare per ciò che riguarda le riforme. In parte per responsabilità della sinistra, certo, ma in buona misura per colpe politiche del fronte berlusconiano.
Ora si vedrà come volge il braccio di ferro. Le carte da giocare in vista del compromesso non mancano. A cominciare dall’abbassamento della soglia minima (dal 5 al 4 per cento per chi entra in coalizione) e continuando con la necessità di «sbloccare» le liste oggi troppo chiuse.


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