Titolo V, gli errori da non ripetere
Il nostro regionalismo, già nato debole e contradditorio (eccessive diversità fra Regioni ordinarie e speciali, mancanza di una seconda camera «regionale», decisivi poteri del legislatore statale sui poteri regionali), si è faticosamente sviluppato solo con enorme ritardo: ma fra il 1948 ed il 1970 il nostro stato centrale è cresciuto e si è modernizzato, sono sorte le istituzioni europee, i vari soggetti sociali si sono per lo più strutturati a livello nazionale; le Regioni quindi si sono dovute sviluppare in un contesto imprevisto e particolarmente difficile.
Ciò malgrado, l’esistenza delle Regioni sull’intero territorio nazionale ha prodotto iniziali significativi mutamenti ed un trasferimento, per quanto ostacolato e faticoso, di importanti poteri. Ben presto, peraltro, le evidenti resistenze delle burocrazie centrali e le continue spinte del sistema politico a favore degli apparati nazionali, in presenza di un incerto quadro costituzionale, hanno prodotto un sostanziale degrado del modello autonomistico (con anche alcuni fenomeni degenerativi), peraltro pericoloso per la stessa complessiva funzionalità dello stato sociale.
Le notevoli modifiche costituzionali intervenute ad opera di tre leggi costituzionali fra il 1999 ed il 2001 hanno cercato di reagire, rafforzando i sistemi politici regionali, riducendo i limiti ed i controlli, ed attribuendo alle Regioni anche molti nuovi poteri. Le successive vicende politiche hanno, peraltro, prodotto non solo evidenti valutazioni contrapposte sulle innovazioni introdotte, ma impedito organiche politiche di attuazione delle innovazioni introdotte, che sono invece assolutamente indispensabili per far funzionare riforme istituzionali del genere. Anzi, il legislatore statale sembra spesso prescindere dal rispetto delle innovazioni introdotte dal nuovo Titolo V.
Da ciò un fortissimo accrescimento della conflittualità fra stato e Regioni e quindi un improprio accrescimento dei poteri della Corte costituzionale, troppo spesso chiamata a risolvere problemi che avrebbero dovuto essere risolti in sede politica. E tutto ciò è decisamente a favore della trasformazione del senato in una camera delle autonomie, pur con tutte le difficoltà del caso.
Peraltro le difficoltà attuali dipendono anche da gravi carenze dello stesso riparto di competenze contenuto nel nuovo Titolo V: ben prima di specifici e puntuali limiti delle disposizioni costituzionali (su cui spesso si addensano inutili proposte di revisione costituzionale: questi problemi sono già stati, in genere risolti, dalla legislazione e dalla prudente giurisprudenza della Corte), ciò che emerge nettamente è che le elencazioni contenute nell’art. 117 della Costituzione, al di là di alcuni errori, non sono affatto esaustive ed anzi provocano innumerevoli conflitti. Emerge nettamente la necessità che il riparto di competenze fra stato e Regioni sia assai più completo e preciso, che si affrontino pure i problemi di «incrocio» delle materie, che le ineludibili ulteriori specificazioni siano affidate ad un parlamento infine rappresentativo dell’intera Repubblica. Una significativa forma di autonomia territoriale esige necessariamente che esista una Costituzione coerente e quindi adeguatamente precisa e davvero dotata di istituti e forme di leale collaborazione.
*L’autore, ex presidente della Corte Costituzionale, terrà oggi la relazione di apertura del convegno dedicato a «Che fare delle Regioni? Autonomismo e regionalismo nell’Italia odierna» organizzato a Roma dall’Istituto Luigi Sturzo.
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