Il sindacato Usa sconfitto sul modello Volkswagen

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NEW YORK — Una sconfitta per una manciata di voti, una cinquantina, in una fabbrica con 1600 addetti sperduta nel Sud degli Stati Uniti, a Chattanooga, Tennessee. Una notizia apparentemente minore: eppure il referendum perso l’altra sera nella fabbrica americana della Volkswagen potrebbe essere l’inizio della fine per l’Uaw, il sindacato Usa dell’auto che, ripreso un minimo di fiato in questi ultimi anni di resurrezione dei produttori americani di Detroit, sperava di garantirsi il rilancio – e quindi il futuro – entrando anche nei «transplant», gli stabilimenti costruiti dalle case straniere (asiatiche ed europee) nel Sud degli Stati Uniti.
Un’ impresa resa problematica dalla scarsa presenza del sindacato nel Mezzogiorno americano, ma il capo dello United Auto Workers, Bob King, aveva più volte detto senza tanti giri di parole che un’organizzazione scesa in trent’anni da 1,2 milioni a 400 mila iscritti e che ha sfiorato l’estinzione ai tempi della bancarotta di Chrysler e General Motors, rischia di non avere un futuro se non riesce a organizzare anche i «transplant»: impianti (di Toyota, Honda, Nissan, Hyundai, Bmw eccetera) che oggi producono il 30% delle vetture vendute negli Usa (mentre il 45% viene da Gm, Ford e Chrysler e il restante 25% è importato dall’estero).
Quadro difficile, ma in Tennessee si presentavano condizioni incredibilmente favorevoli per lo Uaw: un’azienda tedesca da sempre abituata al dialogo coi suoi lavoratori e che ha rappresentanze sindacali praticamente in tutti i suoi 105 stabilimenti Volkswagen sparsi per il mondo; l’appoggio di Ig Metall, il sindacato metalmeccanico tedesco che ha molta influenza sulla casa madre; gli operai di Chattanooga che nelle consultazioni preventive avevano firmato in netta maggioranza cartoline sindacali, dicendosi favorevoli a farsi rappresentare dalle «unions».
Ma i politici repubblicani che governano lo Stato, decisi a impedire lo sbarco in Tennessee della Uaw (che fa parte della confederazione Afl-Cio), sono passati alla controffensiva fin dall’autunno scorso. Il governatore e diversi parlamentari hanno cominciato a sostenere che, se i sindacati fossero entrati alla Volkswagen, le aziende della componentistica che forniscono i produttori di auto non avrebbero più costruito i loro nuovi stabilimenti in questo Stato.
L’intervento più pesante l’ha fatto il senatore Bob Corker che due giorni prima del voto ha detto di avere una rivelazione da fare: «So per certo che la Volkswagen costruirà qui un nuovo veicolo solo se non arriverà il sindacato». L’azienda si è affrettata a smentire, ma tutti sanno che Volkswagen deve decidere a breve se produrre il suo nuovo Suv «CrossBlue» a Chattanooga o in uno stabilimento VW in Messico.
L’altra sera, quando un «notaio» indipendente – il giudice distrettuale in pensione Sam Payne – ha comunicato l’esito dello scrutinio, alla Uaw sono rimasti senza fiato: 712 voti contrari all’ingresso dei sindacati, 626 favorevoli. È bastato lo spostamento di una cinquantina di voti a capovolgere il risultato del referendum: adesso tra rabbia e incredulità i sindacalisti denunciano la distorsione prodotta dalle incursioni repubblicane e soprattutto dalle false dichiarazioni del senatore.
Arriva anche l’indignazione di Obama («a Corker gli azionisti tedeschi di VW interessano più degli operai americani»), ma a buoi ormai usciti dalla stalla: i sindacati vorrebbero fare ricorso ma i giuristi dicono che non riusciranno a ottenere né una sentenza contro Corker né l’annullamento del referendum, visto che la Costituzione offre una protezione pressoché illimitata al «free speech» e che i parlamentari godono di una ancora più totale libertà d’azione (e di dichiarazione).
Massimo Gaggi


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