Nazioni Unite arbitro imparziale che può disinnescare la mina ucraina

Nazioni Unite arbitro imparziale che può disinnescare la mina ucraina

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L’accordo di Ginevra è già fallito. Anzi è servito solo a peggiorare la situazione in Ucraina. Il dialogo diplomatico viene sistematicamente scavalcato dalle manovre militari o paramilitari sul campo. Ieri mattina è partita l’operazione «antiterrorismo» annunciata dal presidente ad interim Oleksandr Turchynov. Primo bilancio: sette morti tra i miliziani filorussi di guardia a un checkpoint sulla strada di Slaviansk nell’est del Paese.
L’intesa firmata da Stati Uniti, Russia, Ucraina e Ue il 17 aprile (solo otto giorni fa) prevede «lo scioglimento dei gruppi armati illegali» su tutto il territorio, «lo sgombero» degli edifici occupati e «l’amnistia» per i manifestanti che «non hanno commesso reati gravi». È la «de-escalation» più volte evocata dal presidente americano Barack Obama. Ma nell’ultima settimana non c’è stata un’iniziativa, neanche una parola che sia andata nella direzione giusta. Il governo di Mosca ha assunto di fatto il controllo delle operazioni nelle città dell’Est, inviando gli «uomini verdi», gli agenti armati che hanno conquistato la Crimea.
Il testo di Ginevra si è limitato a elencare i passaggi necessari per disinnescare il pericolo di una guerra convenzionale tra Ucraina e Russia (perché di questo si tratta), ma non ha indicato con precisione tempi e modi del disarmo bilaterale. Un grave errore, come dimostra la cronaca degli ultimi giorni. L’altro sbaglio è stato di non investire direttamente le Nazioni Unite. Mai come in questo caso si avverte la necessità di un arbitro la cui efficacia e imparzialità siano riconosciute da tutte le parti. Gli occidentali si sono fidati dei russi e della logica, ritenendo che il primo passo sarebbe dovuto toccare al movimento filoputiniano che da due mesi ormai presidia i palazzi del governo nel distretto di Donetsk, l’area più industrializzata dell’intera Ucraina. A Mosca, invece, si è data un’interpretazione esattamente opposta, sostenendo che il primo gesto, di alto valore simbolico oltre che pratico, sarebbe dovuto spettare «agli usurpatori di Kiev». Il governo provvisorio, dicono i russi, dovrebbe per esempio disarmare il gruppo nazional-radicale «Settore destro», una delle anime della rivolta di Maidan.
Così il confronto si è subito riacceso il 18 aprile su una questione apparentemente secondaria: chi deve cedere le armi per primo? La diplomazia avrebbe e ha ancora a disposizione mille sofismi per rispondere alla domanda. Ma deve sbrigarsi, avendo bruciato il primo tentativo con l’affrettato pasticcio ginevrino.
Il problema vero è che gli occidentali dovrebbero decidere in modo comprensibile per l’opinione pubblica mondiale che cosa vogliono fare con Putin. Lo vogliono stanare, toglierli ogni pretesto? Complicato, rischioso, ma forse fattibile. Stanare il numero uno del Cremlino significa innanzitutto prendere sul serio il sentimento filorusso che fino a qualche settimana fa, prima dell’arrivo dei kalashnikov di Mosca, chiedeva di essere rassicurato. Significa spingere i dirigenti dell’Ucraina almeno a valutare la praticabilità di una riforma federale del Paese. Qualche delegazione europea ha provato a parlarne con Julia Tymoschenko e Petro Poroshenko, i due contendenti più accreditati alle presidenziali del 24 maggio. Ma la risposta, finora, è stato un «no» più o meno sdegnato.
Tenere vivo, nonostante tutto , il dialogo con Mosca vuol dire spiegare al presidente provvisorio Turchynov che non è il caso di spedire la sbrindellata armata ucraina nella tundra a spianare le barricate di Slaviansk, solo quattro giorni dopo Ginevra. Vero, il 19 aprile i filorussi avevano rapito, torturato e ucciso Volodimir Rybak, un uomo politico dello stesso partito di Turchynov. Ma la decisione di violare formalmente la tregua non doveva essere presa solo da Kiev, visto che a Ginevra si sono impegnati come garanti gli americani e gli europei. Per altro l’esercito ucraino non è in grado di reggere l’urto di un’eventuale invasione russa: tanto è vero che ieri i blindati di Kiev si sono fermati non appena Mosca ha mosso le truppe sul confine.
Putin ha colto fin troppo bene le difficoltà e le incomprensioni, chiamiamole così, tra Washington, la Ue e l’acerbo nuovo corso ucraino. E si sta muovendo con spregiudicatezza e cinismo, mettendo in mostra il repertorio di propaganda, bugie grossolane, intimidazioni al limite del bullismo già visto poche settimane fa in Crimea. Tutto lascerebbe pensare che Putin voglia la guerra. Ma è davvero così? O meglio: è davvero inevitabile? L’Occidente ha il dovere di non crederci. Per l’Unione Europea il rifiuto della guerra è esplicitamente previsto nel Trattato di Lisbona. Questo, però, non significa rimandare ancora le decisioni o, peggio, replicare a Putin in modo confuso.
Servirebbe una linea comune su sanzioni economiche forti e su massicci aiuti militari all’Ucraina (e non i 900 soldati inviati ieri in Polonia). Dopodiché sarebbe possibile costringere Putin ad accettare una «Ginevra due». Questa volta senza possibilità di «equivoci».


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