Tra facce pulite e falangi armate Donetsk sceglie l’autonomia

Tra facce pulite e falangi armate Donetsk sceglie l’autonomia

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DONETSK — Si può ragionare sulle schede, sui timbri, sulle liste elettorali come se fosse il voto di un cantone svizzero. Oppure si può ragionare sulle famiglie, le coppie, le donne anziane, le ragazze, i giovani che si sono messi in coda nei seggi di Donetsk, come se vivessero in un cantone svizzero.
Tutti i numeri del referendum sull’indipendenza del Donbass non sono verificabili. A cominciare dal risultato «sostanzialmente definitivo» annunciato nella notte: 89,07 per cento «sì», contro il 10,9 per cento «no». Quanti dei cinque milioni di cittadini aventi diritto si sono presentati alle urne? Chi ha potuto controllare che effettivamente lo abbia fatto più del 70 per cento, come da comunicazione ufficiale? Tuttavia nessuno di coloro che sono stati testimoni, che hanno girato per i seggi e per la città, può in coscienza sostenere che la popolazione abbia fatto sprofondare nell’indifferenza l’iniziativa spericolata e illegale del movimento separatista. Molta gente ha votato, si è messa in fila liberamente, senza il fastidioso pungolo di un Kalashnikov dietro la schiena. Questa, soprattutto questa immagine rimarrà dell’11 maggio, qui nell’Ucraina dell’Est.
Il gruppo dirigente dei filorussi, emanazione del vecchio clan dell’ex presidente Victor Yanukovich, si è impegnato al massimo per rendere più plausibile la cerimonia del voto. A Donetsk il responsabile dell’ufficio elettorale, Roman Lyagin, ha messo in piedi un’organizzazione rudimentale, con qualche decina di telefoni e di computer, provando a scimmiottare la sala dati del ministero dell’Interno in un qualunque Paese occidentale nel giorno delle elezioni. Conferenze stampa ogni tre-quattro ore. Aggiornamenti «ufficiali» sull’affluenza alle urne. Alle 19 risultava aver votato il 69% a Donetsk e il 75% a Luhansk. La larghissima vittoria del «sì», naturalmente, non è mai stata in discussione. Già ieri il governo a interim di Kiev ha liquidato la consultazione come «una farsa criminale pagata da Mosca» e, ovviamente, nessuno in Occidente riconoscerà la legittimità del risultato. Sarà interessante, invece, capire come Mosca commenterà e, soprattutto, utilizzerà le schede di Donetsk e Luhansk nel confronto-scontro con gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Se lo chiede anche il leader dell’autoproclamata repubblica del Donbass, Denis Pushlin: «Stiamo aspettando la reazione dei nostri fratelli russi». Il «fratello russo» più importante di tutti, Vladimir Putin, mercoledì scorso aveva invitato i movimenti dell’Ucraina dell’Est a rinviare un referendum pagato (poco o tanto che sia) con i suoi soldi e con quelli di Yanukovich. Ieri, però, a Mosca è stato allestito un centro elettorale nel quale circa 10 mila ucraini hanno potuto votare.
Nelle urne trasparenti di plexiglass molti cittadini del Donbass hanno depositato una speranza, più che una protesta. Eugheny, un pensionato di 64 anni, è in coda da un’ora. È uscito a prendere un po’ di aria e di sole, mentre sua moglie gli tiene il posto nella scuola di Vorosciloski, un quartiere centrale di Donetsk, non lontano dalla grande piazza Lenin. «Non mi aspettavo tanta gente, segno che la voglia di un cambiamento ha prevalso sulla paura». Poco più in là Mikael, 24 anni, interprete in una società di hi-tech, dopo qualche chiacchiera innocente ammette di essere venuto a votare controvoglia: «Non è la cosa migliore in questo momento, perché rischiamo veramente di dividere il Paese. Quello di cui abbiamo tutti bisogno sono dei grandi cambiamenti nell’economia. Ma non penso che il governo di Kiev sia in grado di perseguirli. E quindi, alla fine, ho deciso di venire qui».
Ore di tensione si sono registrati a Krasnoarmeisk, nella regione di Donetsk, dove truppe fedeli a Kiev hanno tentato di disperdere la folla intorno al municipio e sono accusate di aver ucciso un civile, anche se il governo ucraino nega ogni responsabilità.
Certo, dentro questo voto non ci sono solo le facce pulite di Eugheny e di Mikael. Non bastano per cancellare la violenza delle falangi armate, l’arroganza e la prepotenza di qualche centinaio di mazzieri che anche ieri ha spintonato un paio di fotografi e maltrattato diversi giornalisti ucraini. Non bastano per cancellare i sospetti più che fondati di frodi nel voto. La domenica del referendum, però, è forse l’ultimo avviso per le diplomazie internazionali. Nel Donbass esiste un sentimento filorusso che si mescola con una forte diffidenza anti-Kiev. Sicuramente questa parte della popolazione non è maggioritaria nella regione. Ma oggi è padrona della piazza e dimostra, può piacere oppure no, anche di avere una voce politica, nonostante la guerra sia parcheggiata 120 chilometri a Nord, a Sloviansk e 100 a Sud, a Mariupol. Da oggi sarà oggettivamente difficile non tenerne conto, qualunque sia il tavolo di negoziato sul futuro dell’Ucraina.


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