Carcere ai reporter di Al Jazeera L’Egitto mette il bavaglio ai media

Carcere ai reporter di Al Jazeera L’Egitto mette il bavaglio ai media

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Tra le prove prodotte dall’accusa contro di loro una cartuccia usata raccolta per strada dopo una protesta e un video del cantante pop australiano Gotye: l’intero processo contro i tre giornalisti di Al Jazeera arrestati al Cairo in dicembre è stato una farsa. Le condanne di ieri sono state invece la prova che la Restaurazione imposta dal neopresidente Abdel Fattah Al Sisi non guarda in faccia a nessuno. Perché le sentenze contro i tre giornalisti detenuti e gli 11 riusciti a lasciare il Paese sono degne solo di una dittatura: dai 7 ai 10 anni per «diffusione di notizie false e lesive dell’immagine dell’Egitto» e «sostegno a un’organizzazione terrorista», i Fratelli Musulmani. Ma anche perché due dei condannati in cella, Peter Greste e Mohammed Fahmy, sono rispettivamente australiano e canadese; due dei reporter giudicati in contumacia, Sue Turton e Dominic Kane, sono del Regno Unito e una, Rena Netjes, è olandese. I giornalisti occidentali certo non contano più dei tanti colleghi egiziani in cella. Ma il verdetto di ieri, di chiara ispirazione politica, è importante perché mostra che al Cairo le relazioni con l’Occidente oggi importano poco. Eppure, dopo i tanti appelli dall’estero nei mesi scorsi, ieri il verdetto ha suscitato un’ondata di indignazione anche nei governi: il premier britannico Cameron ha convocato l’ambasciatore egiziano a Londra dicendosi «del tutto sconvolto», la ministra degli Esteri australiana Julie Bishop («scioccata») ha fatto lo stesso, così come il suo omologo olandese, Frans Timmermans, che solleverà la questione al prossimo Consiglio Esteri Ue a Lussemburgo. Ma Al Sisi sa bene che al di là delle condanne verbali i governi occidentali raramente si spingono quando si tratta di diritti umani. Domenica l’amichevole visita del segretario di Stato Usa John Kerry ne è stata la prova. E il grande sponsor del generale-raìs comunque è l’Arabia saudita, non democratica e arci nemica della Fratellanza, che certo ha gradito il verdetto di ieri.
La storia di Peter Greste, Mohammad Fahmy (condannati a 7 anni) e Baher Mohammad (a 10 anni perché in possesso di «munizioni» ovvero della famosa cartuccia trovata per terra) si intreccia con la politica egiziana e araba culminata nel colpo di Stato di Al Sisi, il 3 luglio 2013, contro il raís islamico Morsi. Poche ore dopo, gli uffici del Cairo di Al Jazeera erano stati chiusi, i giornalisti costretti a trasmettere dall’hotel Marriott di Zamalek, tanto che i media filo-regime li hanno soprannominati la «cellula Marriott». La stretta sulla tv del Qatar era scontata: dalla sua nascita nel 1996 è sempre stata vicina alla Fratellanza e sempre ha avuto problemi con i governi arabi. Ma i veri guai per i suoi giornalisti erano arrivati in dicembre, quando il movimento islamico era stato dichiarato «terrorista». Subito dopo erano scattati gli arresti. Peter Greste, 48 anni e un curriculum alla Reuters e alla Bbc , era stato un mese in isolamento assoluto, con continui soprusi denunciati nelle lettere riuscite ad uscire dal carcere di Tora. Lo stesso era avvenuto al canadese Mohammed Fahmy, già alla Cnn e al New York Times , e a Baher Mohammed. Tutti e tre hanno sempre negato ogni affiliazione con la Fratellanza ed erano convinti che presto sarebbero stati liberati. Ieri, mentre il giudice leggeva la sentenza attraverso gli occhiali neri (Al Sisi li indossa spesso), Greste non ha reagito come in passato, ha abbassato la testa. Famhy dalla gabbia di ferro ha urlato qualcosa alla fidanzata ma c’era troppo frastuono. Poi sono stati portati via, lasciando a lottare per loro, quando supereranno lo choc, le famiglie, gli attivisti, gli amici e i colleghi, i diplomatici presenti in aula e nel mondo.
Cecilia Zecchinelli



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